Qui riposa anche il suo "migliore amico": il cimitero (segreto) del Gattopardo in Sicilia
Prima di loro, in Europa, c’erano già il Pet Cemetery di Hyde Park, nato in epoca vittoriana, o il piccolo cimitero degli animali del Castello di Edimburgo. Dove

Il cimitero segreto del Gattopardo
A Capo d’Orlando, lungo un crinale che respira la salsedine e vede le Eolie in controluce, esiste un luogo in cui questa idea sembra farsi concreta, un angolo che non ha nulla della monumentalità cimiteriale eppure racchiude una storia tanto minuta quanto potente, un rettangolo di mattoni bassi che protegge trentasei piccole tombe coperte da aghi di pino, con lapidi di marmo leggermente storte, come se il tempo avesse voluto piegarle verso la terra per ascoltare meglio chi vi riposa.
È il cimitero dei cani e anche di alcuni gatti di Villa Piccolo di Calanovella, dimora dei fratelli Lucio, Casimiro e Agata Giovanna, cugini di Tomasi, che trasformarono questa residenza e il suo parco in un organismo vivo, pulsante di botanica, letteratura, esoterismo e memorie araldiche.
La loro creazione non fu un unicum assoluto. Prima di loro, in Europa, c’erano già il Pet Cemetery di Hyde Park, nato in epoca vittoriana, o il piccolo cimitero degli animali del Castello di Edimburgo, luoghi che restituivano dignità e ricordo a compagni non umani, ma a Villa Piccolo quella tradizione si tinse di un colore tutto siciliano, mescolando pietas, eccentricità aristocratica e spiritualità esoterica.
Villa Piccolo non era una semplice casa di campagna ma un microcosmo rarefatto, sospeso fra i giardini mediterranei e certe atmosfere da “hortus conclusus” colto e misterioso.
Agata Giovanna, botanica di talento e donna di cultura poliglotta, la modellò piantando araucarie, hibiscus trasformati in alberi, strelitzie giganti, pergolati avvolti da glicini secolari e persino la rarissima Puya berteroniana, che riuscì a far attecchire per prima in un parco mediterraneo, tanto da scriverne un trattato.
Casimiro, pittore e fotografo, era il custode della dimensione occulta. Studiava Paracelso, credeva nella trasmigrazione delle anime secondo la lezione di Pitagora, praticava sedute spiritiche e sosteneva che i cani, soprattutto quelli vissuti accanto all’uomo, erano anime prossime alla condizione umana, compagni di viaggio in un ciclo di vite che poteva condurre a reincarnazioni sempre più elevate.
Bisogna dire che il barone, spirito notturno, dormiva di giorno e di notte vagava per le stanze della villa con un’ingombrante macchina fotografica stretta fra le mani, nella speranza di catturare su pellicola spiriti, anime vaganti di scomparsi, apparenze di uomini e di animali defunti da tempo.
Di animo gentile, si preoccupava perfino di lasciare bacinelle ricolme d’acqua lungo i corridoi, nel caso che quelle presenze, affaticate nello sforzo di materializzarsi, avessero avuto sete.
Lucio, poeta e autore di Canti barocchi, era l’interprete più lirico di questa sensibilità, capace di dare alle presenze invisibili un ruolo nella quotidianità.
Non era raro che, di notte, raccontasse di aver sentito bussare alle porte o abbaiare in stanze vuote, convinto che fossero i cani defunti a far loro visita.
Di uno in particolare disse di averlo visto tre volte a distanza di nove anni dalla morte, due volte “in carne e ossa”, una volta trasparente, e che lo chauffeur di casa avesse udito i suoi passi e i suoi latrati. Il cimitero nasce da questa visione, non semplice memoria ma atto di accompagnamento, come a seguire il cane – o il gatto – “piccolo altro sé” lungo il cammino verso l’ignoto, con un tributo di pari dignità.
I nomi incisi sulle lapidi raccontano molto. Accanto a quelli esotici e mediorientali come Alì, Emir, Pascià, Mamoud, Bey, Omar, Micado, Malatedda, Aladino, Farouk, Cafir, Sha ci sono quelli occidentali, Puck, Tock-
Tra questi spicca Crab, un cocker spaniel nero, l’amato cane di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sepolto qui in segno di un legame affettivo e letterario. Crab era il suo confidente silenzioso, al punto che lo scrittore gli dedicava lettere in cui annotava i suoi compleanni, descriveva il modo in cui lo accudiva quasi fosse un figlio e gli parlava in inglese, come se scegliere una lingua diversa dalla propria fosse un modo per mettere una lieve distanza fra sé e la realtà, creando un rifugio intimo e inaccessibile.
Lo scrittore era di casa a Villa Piccolo, soprattutto vicino a Lucio, con cui discuteva di poesia e di quell’Histoire sans nom che sarebbe diventata Il Gattopardo, e nei suoi diari non mancano appunti sul tempo trascorso qui, tra telescopi, globi e conversazioni interminabili.
La figura di Crab sembra dialogare in filigrana con quella di Bendicò, l’alano del Principe di Salina che nel romanzo è un alter ego del protagonista, presente nei momenti cruciali e capace, nel finale, di un’ultima apparizione araldica mentre la sua pelliccia, gettata via, si ricompone in aria per un istante. I cani dei Piccolo non erano però solo figure poetiche o compagni spirituali.
Erano guardiani implacabili, incroci possenti selezionati per forza e resistenza, capaci, raccontano i cronisti, di saltare addosso ai visitatori fino a farli rifugiare sugli alberi, persino anziani con l’artrite, come accadde a ospiti di riguardo accolti da Lucio con un certo divertimento.
Di notte pattugliavano la proprietà e, se capitava, assaltavano greggi nei dintorni tornando con i musi sporchi di sangue, eppure alla loro morte, e alla morte di gatti di casa altrettanto amati si celebravano funerali solenni con inginocchiatoi e preghiere, un rito che fondeva pietas e sacralità domestica.
Camilla Cederna, in una visita del 1966, raccontò con ironia di questi “feroci” accolti nel camposanto, mentre lo scrittore Stefano Malatesta descrisse il luogo come "nobilmente abbandonato", con le lapidi inclinate e un silenzio intriso di memorie.
Oggi, percorrendo il viale che conduce al cimitero, si passa accanto a quella che i locali chiamano ancora “la panchina di Lampedusa”, dove Tomasi e Lucio si fermavano a parlare guardando verso il mare, e quando si entra nel recinto si percepisce l’eco di quel mondo aristocratico e bizzarro che mescolava botanica, poesia e occulto.
Un mondo in cui il rispetto per gli animali non era codificato da leggi o associazioni ma scaturiva da un sentimento di affinità profonda, capace di dare sepoltura e memoria anche a chi camminava a quattro zampe, nella convinzione che nulla di ciò che ha vissuto e amato possa mai davvero scomparire.
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