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Le sorprese celate in tavola

Quando mangio le cose ripiene, mi sento una picciridda che apre il regalo. Nonostante si conosca il sapore di una cosa, non si può avere mai la certezza di come sia. Nella riuscita di una ricetta influiscono molti elementi. Mangiare è un terno al lotto. Una cosa dall’aspetto appetitoso si può rivelare un’emerita schifezza. Una bella "ravazzata" calda, gonfia, con tanto formaggio squagliato sopra può essere un obbrobrio dalla pasta cruda all’interno, asciutta ai bordi, con un miraggio di condimento proiettato solo al centro.

Voi avete fatto la lotta per ottenere quel pezzo, vi siete guardati intorno con fare circospetto, vi siete avvicinati distrattamente, ma in modo repentino, per non farvi sottrarre “l’oscuro oggetto del desiderio”, avete diretto la mano del banconista contro il suo perfido senso dell’orientamento. Un’impresa: “No, vorrei quello più a destra, no, no, quello sotto”. Il banconista sta toccando tutti i pezzi, cosa per cui gli altri clienti cominciano a mormorare. Alterato vi chiede “Questo?” Voi sorridete, strizzando i pettorali, per sottolineare l’incavo del seno, sperando in una mutazione sessuale repentina e vi chiedete “Perché non sono donna?” “No –sorridete – quello sopra.” C’è riuscito. Finalmente avete in mano ciò che desiderate. Ma poi scoprite che il fagottino è pieno d’aria, il condimento è emigrato. Cosa fare? Sbatterlo in faccia a chi ve lo ha dato? In fondo lo avete chiesto voi, quindi non potete lamentarvi. Non vi rimane che agghiuttere e salutare, giurando di non metter più piede in quel posto.

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È vero che non tutto e non sempre si può preparare da sè, però ci sono dei piatti, per cui serve solo pazienza, che danno, quando li gustate, una soddisfazione impari: per esempio gli involtini. Mi è capitato di mangiare involtini duri, la cui carne era ‘na sola, che ci voleva lo scopino del bagno per farli scendere in gola. Oppure con il condimento vecchiotto, databile, secondo le ricerche di noti archeologi, nel III° secolo a.C. Ricordo mia nonna che spianava le fette di carne sulla balata di marmo, mi diceva che dovevano essere sottili, altrimenti gli involtini sarebbero stati duri. Comprava 1 kg di scaloppine. Metteva a ‘ngranciare, in una padella con poco olio, l’aglio e una volta rosolato lo buttava, atturava la mollica, aggiungendo qualche filetto di pomodoro pelato, giusto per ammorbidire l’impasto, passolina e pinoli, rinvenuti nell’acqua calda, sale, pepe. Lasciava dorare.

A quei tempi non osavo assaggiare, mi limitavo all’osservazione. Quando ho capito che ero l’unica scema, essendo la più piccola dei cugini, ho agito anch’io. Una volta raffreddato questo ripieno aggiungeva cubetti di caciocavallo “scagionato”, come disse una gentile signora al salumiere, che le rispose, con molta serietà “Mi dispiace, noi trattiamo solo merce latitante”, per giustificare l’assenza del prodotto. Prendeva il composto e riempiva ogni fettina, avvolgendola su se stessa, come fosse un ciripà.

Per la quantità si regolava a occhio: non troppo perché si sarebbero aperti, né troppo poco perché sarebbero stati asciutti. Infilava gli involtini in una stecca di bambù, alternandoli con foglie di alloro e di cipolla. In genere ne metteva quattro per ogni stecca, ma chissà come mai a tavola c’erano sempre stecche menomate, che spesso rifilavano a me, che ero picciridda.
Esistevano altre versioni: a volte, se li cucinava al forno, panava ogni fagottino, oppure li avvolgeva nelle fette di pancetta se li facevamo alla brace. Altre volte aggiungeva cubetti di salame dei Nebrodi o la caciotta di Ganci al ripieno. Una volta ha frullato delle verdure soffritte e ha riempito le fettine con questa amalgama piena di formaggio, sostenendo che così fossero vegetariani e quindi più leggeri. Ma la nonna aveva un concetto della leggerezza del tutto personale…

L’abbinamento

E’sempre emozionante trovarsi davanti ad un piatto come questo, non sai mai cosa aspettarti. Non appena si presenta alla vista ti assalgono mille pensieri e centinaia di dubbi, e tutto è circondato da un alone di mistero che rende l’esperienza ancora più eccitante. La domanda iniziale sarà “cosa si celerà al suo interno?”. Gli appassionati di mitologia greca penseranno d’istinto ai mali contenuti nel vaso aperto da Pandora. I golosi riponderanno che, in questo caso, non tutti i mali vengono per nuocere; e se questi, come il mito riporta, affliggeranno il genere umano, ebbene pazienza! E in effetti la degustazione di questa composita preparazione cancella ogni perplessità. Tendenza dolce, grassezza e succulenza percepibile, speziatura ed aromaticità ne sono le caratteristiche principali. La loro combinazione mi spinge a scomodare un vino ottenuto da uno dei nostri vitigni autoctoni a bacca rossa, il Perricone. Lo si ritrova in molte DOC siciliane, e per l’occasione ritengo la versione vinificata nella DOC Monreale quella più adeguata, magari con qualche anno di invecchiamento.

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