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Nel canneto la voce delle anime perse del Woyzeck

  • 5 settembre 2005

Lo splendido, fitto canneto, inquietante voce di anime desolate e smarrite, si staglia sullo sfondo della scena, dominando ogni cosa. Ora insidiosa visione dalla quale appaiono teste e fantocci (e cos’altro è questa misera umanità qui rappresentata?), ora vano rifugio dall’enorme desolazione imperante, ora talamo di sangue e disperazione. È questo l’elemento che più di ogni altro racconta e descrive della cupa abiezione dalla quale Woyzeck non riesce ad affrancarsi, in un coro affascinante di suoni e rumori che si affiancano a musiche di bande lontane, echi di mondi di irreali lente esistenze. Incisive le scenografie della brava Mela Dell’Erba (suoi anche i costumi) che traducono visivamente il disegno di Claudio Collovà, regista (e autore della traduzione e dell’adattamento) di questo dramma senza speranza, “Woyzeck” di Georg Büchner, una produzione dello stesso Teatro Garibaldi insieme con l’Unione dei Teatri d’Europa, la cooperativa teatrale Dioniso e Kals’Art, in scena in prima nazionale al teatro Garibaldi di Palermo alla Kalsa (in via Castrofilippo), dal 30 agosto al 6 settembre nel cartellone della stagione 2005, con Alessandra Luberti, Giuseppe Massa, Simona Malato, Alessandro Mor, Piera Pavanello, Luigi Di Gangi (musiche di Giacco Pojero e Nino Vetri, da sempre collaboratori di Collovà, luci di Andrea Narese). Nello spazio sottostante l’imponente canneto, costruito su quello che un tempo in origine doveva essere il palco del teatro, piatti e tegami militari animano rumorosamente la scena, spezzata e subito ricomposta in distinti ambienti, secondo un disegno in continuo divenire, da tre brande inusitatamente poste verticali a mo’ di paravento, nei quali le tre coppie di Marie e Woyzeck procedono nell’irrefrenabile incedere verso i mortiferi eventi.

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E sono i suoni (sopra ogni altro quello del canneto) che da rumori diventano la voce vera di quella bassezza di vita efficacemente raccontata dalla forte gestualità della Luberti (mirabile come sempre il suo disegno dei corpi in movimento sulla scena): una gestualità conturbante lì dove diventa padrona della narrazione disegnando immagini di amplessi lussuriosi, bramati sebbene illeciti (la scena dei rossi fazzoletti con i quali le attrici si sfregano l’inguine), di reiterate tondeggianti danze di morte in una volgare quotidianità di piscio continuo, di parole gettate nel buio delle anime ormai precipitate nel vortice della disperazione. E l’ammaliante corteo di suoni e rumori di cui abbiamo detto (e ancora è da riferire l’ipnotico perdurare dello schiocco insistente di frusta dell’imbelle soldato che fa da incipit al lavoro), è più eloquente delle parole invece sterili, buttate quasi a casaccio e con una inutile monotonia di toni e immotivata diversità di accenti, dalle tre coppie Marie – Woyzeck, nello spietato incedere della vicenda, scandito ora da fascinose inquietudini ora da cadute di ritmo. Infatti, sebbene forti visioni si impongano dagli occhi al cuore, la frammentarietà dell’azione e la perdita del ritmo narrativo soprattutto nella parte centrale del lavoro, tolgono coesione ad un tutto espressivo che alla fine procede secondo una schema quasi prevedibile nella forma, dal momento che nel contenuto quel che si racconta dipende dalla conoscenza che si suppone lo spettatore già abbia della vicenda. Lo spettacolo rimane essenzialmente un susseguirsi di immagini, alcune delle quali, come abbiamo detto, senza dubbio efficaci, funzionali al dato momento emotivo. Tuttavia resta negli occhi la disperazione urlata dal soldato a braccia legate dietro la schiena, con tutta la sua rabbia. Ed in quella rabbia pare di leggere un monito: il precipitare nel baratro della miseria morale è un'insidia alla quale tutti si è esposti.

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