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Penitenza con sapore: l'arancina consolatrice

Ricercare le origini di uno degli emblemi più rappresentativi della nostra terra è un’impresa ardua e controversa. Il 13 dicembre si festeggia santa Lucia. E fin qui niente di nuovo. La storia narra che Lucia, giovinetta siracusana, si recò a Catania per chiedere aiuto ad Agata, già famosa per i suoi poteri, affinché la madre si ristabilisse dalla grave malattia. Lì le venne preannunciato il suo martirio. Sconvolta, ruppe il fidanzamento. Il promesso sposo, sentendosi abbandonato e oltraggiato, la denunciò alle autorità romane in quanto cristiana. Lucia venne condannata alla peggior pena per una fanciulla casta e pura: il postribolo. Preferì le torture e infine la morte, che avvenne appunto il 13 dicembre.

In verità c’è un’altra festa di santa Lucia, il 13 maggio, giorno in cui, dopo una gravissima carestia, arrivò in città, non si sa bene se a Palermo o a Siracusa, poiché tutte e due rivendicano la tradizione, una nave carica di grano e legumi. I cittadini per la fame, mangiarono il grano crudo, semplicemente ammollato nell’acqua. Così nacque la cuccìa, inizialmente condita con l’olio, poi arricchita dalla crema di latte o di ricotta. Da allora in memoria di quel miracolo i siciliani rinunciano al pane e alla pasta, nutrendosi “solo” di panelle, che originariamente avevano forma di pesce, donde il nome pescepanella, per ingannare lo stomaco e mangiare qualcosa di simile, almeno nella forma, alla frittura troppo esosa per le tasche dei popolani.

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Anche il riso ha un ruolo fondamentale in questo giorno di rinuncia - ancora devo capire per chi sia davvero tale - preparato in vari modi: risotti, timballi e in primis arancine, l’emblema di cui sopra. C’è chi le fa nascere da un’evoluzione del timballo, inventato per facilitare il trasporto di alimenti casalinghi, durante le battute di caccia dell’emiro Ibn at Timnah. C’è chi le fa nascere dalla capacità riciclatoria delle nonne. Il 13 dicembre panifici, rosticcerie, bar si industriano per far fronte alla valanga di richieste. Le persone assatanate fanno file interminabili, gridando il numero del bigliettino, nella speranza di potersi accaparrare l’unico mezzo per trascorrere una buona festa e per mantenere intatto l’onore della propria fede. Anche le mamme e le nonne si operano per far fronte alla promessa annuale e sfornano grattò di patate, friino rrancine, con il sacchetto ‘n tiesta per non ‘nfetarsi. Le si vede nelle mises più agghiaccianti, intente con pazienza amorevole a preparare quei cummattusi manicaretti.

Al burro, con i funghi, con gli spinaci, con il salmone, addirittura con il nero di seppie e con la cioccolata, ricoperte di zucchero. Tanti i gusti, ma quella classica, la storica è cu suc’a cairne. Prepararle è un po’ camurrusello. Bisogna prima di tutto bollire 1 kg di riso, facendo attenzione a non farlo scuocere. Nell’acqua si deve aggiungere una bustina di zafferano, per dare colore. Poi si deve scolare per bene, si insaporisce con due o tre cucchiaiate di formaggio grattugiato e infine si deve versare il riso sulla bella balata di marmo, indispensabile in ogni cucina. Nel frattempo si prepara il ragù, soffriggendo un battuto fine di cipolla, carota e sedano con olio extravergine.

Una volta pronto si aggiungono 400 gr di tritato (in realtà anticamente si usava il tocco di carne stracotto, da sfilacciare con la forchetta), mezzo bicchiere di vino bianco e una foglia di alloro. Si lascia cuocere a fuoco lento per 15 minuti. Si uniscono 250 gr di pisellini, l’estratto sciolto nell’acqua e un po’ di salsa. Si fa restringere il tutto. Una volta che il ragù è freddo, e si inizia la vera e propria preparazione delle arancine. Si prende un po’ di riso e si forma una calotta con un bell’incavo, in cui si posizionerà il ragù, si chiude con un’altra calotta e facendo molta attenzione si cerca di rendere il tutto compatto. Infine si passa questa palla nella farina, poi nell’uovo e infine nella mollica. Si frigge in una pentola dai bordi alti. L’olio deve essere tanto da coprire le arancine immerse, deve essere caldissimo per garantire la formazione della crosta.

Evitate di unire le uova nel riso bollito per dare compattezza al composto. Basta avere pazienza e l’amido del riso farà da collante. Ma dovete lavorare con gli ingredienti freddi. Nonostante la bontà indubbia, restano varie questioni irrisolte. Oltre a quelle a cui accennavo prima, relative alla città in cui successe la carestia, c’è quella dell’origine delle arancine: Catania o Palermo, quella relativa al nome: arancino o arancina, cioè piccola arancia? Lascio agli altri l’ardua sentenza, che si arrovellino pure alla ricerca della verità, io suggerisco di godere della cosa e basta. D’altro canto, come diceva Shakespeare in "Romeo e Giulietta", «cosa v’è in un nome? Una rosa non è una rosa se avesse un altro nome?».

L'Abbinamento

Numerosissime sono le preparazioni a base di riso e, se si vuole trovare l’abbinamento migliore in ogni situazione, è necessario considerare i diversi tipi di cotture. Nel nostro caso, si tratta di una tipica frittura con abbondante olio, ovviamente fritto e rifritto come la tradizione popolare impone. L’immediata sensazione al palato che consegue è una grande untuosità di base, circostanza che fornisce il primo dei dati utili ai fini dell’abbinamento col vino. Deve essere un vino rosso con sufficienti tannini, gli unici elementi in grado di ostacolare e smorzare questa dominante sensazione di scivolosità che pervade l’intera cavità orale.

Proseguendo l’analisi delle nostre arancine, non possiamo trascurare la presenza di una intensa tendenza dolce, imputabile al riso e alla carne che ne costituisce il condimento. Il vino scelto, pertanto, oltre ad essere tannico, sarà fresco di acidità. La considerazione complessiva dell’alimento suggerisce di orientare la scelta verso il rosso prodotto nella Doc Monreale.

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