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“Resistenza e giovinezza”: per ricordare la lotta partigiana

  • 17 giugno 2005

Accade che questo sia l’anno del sessantesimo anniversario della vittoria della resistenza sul fascismo, e quindi della fine del secondo conflitto mondiale, e accade che nel proliferare di pubblicazioni sul tema, una piccola realtà siciliana come Dario Flaccovio Editore mandi alle stampe un romanzo convincente per ricordare la lotta partigiana, che rimane uno dei momenti più alti della storia patria.

I ragazzi del coprifuoco di Giuseppe D’Agata (Dario Flaccovio Editore, 2005, pp.254, euro 14,00) è un bel libro-resoconto su quegli anni, gli anni dell’adolescenza dell’autore, che a quel tempo era un giovane partigiano, una riflessione personale più che un’analisi accurata della resistenza italiana. Sin dal primo capitolo, che è un lungo incipit, si annusa l’aria che tirerà per tutto il resto del romanzo: D’agata ci narra con leggerezza e trasporto la sua memoria, che è la nostra storia, l’esperienza della clandestinità che scorre di pari passo con la sua giovinezza. Ricordi fatti di amicizie, primi batticuori e naturalmente di jazz, la musica odiata dai fascisti che per quelli della generazione dello scrittore rappresentava l’America, le sigarette, le donne, la libertà. La storia, raccontata con un linguaggio semplice ma assolutamente funzionale, scorre fino alla fine sull’onda dei ricordi che egli pare gustare, e a cui si contrappone uno sguardo amaro sul presente e sulla sua stessa condizione di anziano, un presente inadeguato per le aspettative di un tempo che si alterna con le schegge di un passato che era passione, ma anche improvvisazione. Sembra essere questo il nocciolo del romanzo: un fortissimo rammarico che emerge prepotente pagina dopo pagina, sia per la migliore età della vita che è andata via, «Alla mia età – Gerovital o no – gli anni non si contano più a blocchi, ma uno per uno», sia per quello che poteva essere e non è stato «Prima. Prima del 25 aprile 1945, prima della maturità, prima che il mondo fosse quello che è».

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Il racconto si muove quando in una corsia d’ospedale il protagonista incontra il suo ex comandante di brigata “Mistico”, l’organizzatore delle scorribande notturne di un tempo nelle ore pericolose del coprifuoco, quando, aiutati dal buio amico, i giovani-attacchini incollavano manifesti sui muri di Bologna. Entrambi sono malmessi, ma “Mistico” sta peggio, è afflitto da un male incurabile. Sono due uomini parchi di parole che sentono aleggiare la morte più adesso che durante la resistenza, fatta di giorni tragici tra il 1944 e il ’45 in una Bologna devastata dai nazi-fascisti e dall’indifferenza, durante i quali i due ragazzi non solo mettevano a repentaglio la pelle, ma addirittura ricercavano il rischio spinti dalla speranza per la libertà e dall’imprudenza figlia della gioventù. L’incontro fortuito dà la stura al dipanarsi di ricordi e fatti di partigianeria, che non sono mai eroici, ed è questa la particolarità, ma ci vengono esposti in modo sereno, come vita vissuta. Lo sguardo sugli eventi è lucido e a tratti ironico, soprattutto quando l’autore si sofferma sulla presunta organizzazione partigiana; la facile retorica celebrativa viene assolutamente accantonata.

Infine, l’unico aspetto negativo seppur marginale del libro: i primi capitoli si soffermano su degli aspetti medicali che coinvolgono i due protagonisti, e pare che lì la prosa si arrugginisca e diventi un po’ noiosa, oltre che gratuita.
Il bolognese D’Agata, autore di romanzi resi famosi da cinema e TV come “Il medico della mutua” e “Il segno del comando”, torna dopo un lungo silenzio a far parlare di sé con quest’opera dalla scrittura fresca, a dispetto dei suoi settantasette anni. È un romanzo da leggere per resistere, visti i tempi bui che attraversiamo. Quest’ultima chiosa, forse, non è fra gli intenti del libro, ma ci si passi la licenza interpretativa.

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