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Nino, infermiere per 40 anni nell'ex "Casa dei Matti": vi racconto l'ultimo manicomio di Palermo

Secondo l'esperienza di Nino, l'umanità è stata la grande assente da un mondo nel quale chi sceglie di farne parte dovrebbe invece averne sviluppata tantissima

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 13 settembre 2022

Una delle camere dei pazienti della "Real Casa dei Matti" di Palermo

L'indifferenza è uno dei peggiori mali del mondo perché, quando diventa abitudine, condanna ciò di cui non ci curiamo all'oblio.

È l'indifferenza generale che ha mosso Nino a raccontarmi la sua storia, ed io ho raccolto la sua testimonianza perché ho riconosciuto nella sua ansia, oserei dire foga, di raccontare e raccontarsi quella voglia di dire la verità, dal suo punto di vista, che ritengo giusto si conosca.

Dire la verità a volte spaventa, abbiamo paura delle conseguenze, ma è necessario affinché non dilaghi l'indifferenza. Nino ha lavorato per molti anni all'ospedale psichiatrico di Palermo "Nuovo manicomio Pietro Pisani" ex Real casa dei matti, fondata nel 1824 dal barone Pietro Pisani.

«Il quale nominato appena Direttore del Manicomio, volgarmente detto Real casa de' Matti, vi portò tali riforme, che lo mise a pari de' più celebri stabilimenti di Europa ed i poveri mentecatti, mentre per lo passato erano trattati come belve feroci, ripresero il posto che conveniasi all'umanità».
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È proprio "l'umanità" la grande assente secondo l'esperienza di Nino, assente da un mondo nel quale chi sceglie di farne parte dovrebbe averne sviluppata a iosa.

Pietro Pisani era un uomo giusto, un uomo buono, doveva esserlo per forza, stando almeno a quello che si legge nella lettera inviatagli dal Marchese Tommaso Gargallo.

«La maggior gloria bensì riflette in voi dalla somma cura, e diligenza, con la quale amorosamente eseguite con l'opera quanto avete sapientemente divisato con la penna. Quegli sfortunati son divenuti i vostri amici, i vostri figliuoli, e voi quasi dimentico d'ogni altro e sin delle domestiche occupazioni, non siete felice che convivendo con loro; sì che solete ripetere lepidamente ed argutamente: Almeno ho che fare con gente che ragiona».

La Real Casa dei matti sorgeva in un terreno a ovest della città, fuori dalle antiche mura del centro storico, che «sino al 1797 era sgombro di qualunque albero, e la maggior parte interamente incolto ed apparteneva a diversi particolari. Riunite in un sol podere le terre suddette, volle il Principe di Aci combinarvi tante diverse colture [...] Vi si trovano dei vigneti con differenti specie di uva, anche esotica» che diede modo al volgo di definirlo la vignicella.

In questo sito, che attualmente è collocabile tra la via Giuseppe Pitrè e la via Gaetano La Loggia, era situato in origine un piccolo convento di padri Teresiani, i quali dovettero abbandonare tale convento per far posto ai “tisici” e ai “pazzi” come leggiamo dalla guida di Palermo Pedone Lauriel.

«Ov'è oggi lo stabilimento era un piccolo convento di Teresiani, che nell'anno 1802 dovettero cedere il luogo a' tisici e a' pazzi rimossi da San Giovanni de' Leprosi. I tisici poco stante passarono altrove. Rimasero i pazzi, ma in uno stato di crudele abbandono, da cui, secondata dal Governo locale li rilevò nel 1824 la intelligente filantropia del Pisani».

È di questo abbandono che vuole parlare il mio amico Nino, ma cent'anni dopo la guida di Pedone Lauriel, negli anni Settanta del Novecento.

Il barone Pietro Pisani nel 1827 scrive "Le instruzioni per la novella Real casa dei Matti in Palermo". In questo compendio sono presenti, oltre alla descrizione della struttura del futuro manicomio, anche 80 articoli divisi in 9 capitoli, una sorta di "Costituzione". E nel corso degli anni purtroppo se ne sono viste di cose "anticostituzionali".

I folli al tempo del Pisani, non essendoci cure per farli guarire, venivano terribilmente percossi, perché si credeva che ciò li distraesse dal disturbo mentale e se reagivano venivano incatenati per essere ancora percossi.

Tuttavia il mio amico Nino non ne ha viste di cose simili ai suoi tempi, tranne ovviamente degli interventi previsti e contemplati dai medici per evitare che i pazienti potessero fare del male agli altri o a se stessi.

Il Pisani, in rottura con la tradizione, adottò una "cura morale" grazie alla quale venivano curati con amore e in libertà, dentro ad una struttura interamente ripensata per loro.

Asseriva il Pisani che «L'amenità e la bellezza del luogo, ove i matti sono rinchiusi, formano una delle basi di quella cura morale, dalla quale, lo ripeto, è solamente da sperare la loro guarigione; e per la quale, sendosi praticata in questo stabilimento, cinquantotto pazzi sono già in meno di tre anni ritornati alla ragione, e restituiti alle loro famiglie».

Nel 1874 a causa di un affollamento della Real casa dei matti vi è la necessità di ampliare la struttura con nuovi edifici. Il progetto del Nuovo Manicomio di Palermo è affidato all'architetto palermitano Francesco Paolo Palazzotto, il quale mostrò subito un approccio professionale sulla scia del Pisani asserendo che «gli infermi hanno bisogno di cura morale anziché materiale.

Guidato da queste norme curai di realizzare e riunire in un edifizio di natura ospitaliera tutte le condizioni morali e materiali che concorrer debbon ad assicurare a degli ammalati privi della ragione i soccorsi di un trattamento curativo e i benefizii di un Asilo protettore e consolatore».

Ma a distanza di 70 anni dal completamento del Nuovo Manicomio (i lavori finirono nei primi del '900) il mio amico Nino, mi ha raccontato che è come se le cose fossero tornate indietro di un secolo e mezzo, a quando i pazzi venivano trattati come bestie.

Mentre nell'Ottocento si cominciò a pensare a strutture e a cure adatte per loro, secondo una "morale medica", nel Novecento si è pensato di chiudere i manicomi e lasciare in balia di se stessi (a parte i TSO, trattamenti sanitari obbligatori) i pazzi, e le loro famiglie, a seguito della nota legge Basaglia, che aveva buone intenzioni ma che in realtà creò enormi disagi dopo la chiusura dei manicomi.

In verità le strutture e le cure sperimentali nel corso del Novecento sono state ancora una volta brutali per i pazienti tanto che si è preferito per umanità chiudere i manicomi, ritenuti dei veri e propri reclusori. Nessuno però si curò mai dell'altro lato della medaglia. Dove sarebbero andati a finire questi pazienti? Le famiglie li avrebbero curati nel modo giusto, ne sarebbero state capaci?

Le cosiddette strutture alternative in quanto tempo sarebbero state pronte? Come al solito la carente organizzazione politica nella gestione dei problemi sanitari e di maggior rilevanza nazionale ha mostrato da sempre le sue debolezze. Nino, che è figlio di un medico chirurgo, ha lavorato per quarant'anni come infermiere nell'ospedale psichiatrico di Palermo.

«Un'esperienza di vita unica che ripeterei senza indugio» - afferma, poi continua il suo racconto -. «Conobbi l'ospedale quando ospitava circa 3000 ricoverati provenienti da quasi tutta la Sicilia e di tutti i ceti sociali. Venivano curati secondo protocolli standardizzati e collaudati nel tempo: schizofrenia in tutte le sue forme, epilessia, nevrosi, depressione, isteria, paranoia, e tanto altro ancora.

Improvvisamente uno psichiatra del nord, Basaglia, riesce a far approvare la legge 180, una legge che abbatteva i lunghi ricoveri negli o.p. e creava le famose strutture alternative» che a quanto pare non avevano per nulla le originarie caratteristiche umanizzanti della Real casa dei matti pensata dal Pisani prima e dal Palazzotto poi.

Subito dopo la legge Basaglia, secondo il mio amico Nino «inizia il calvario per i disagiati mentali. Gli psichiatri di allora, uscendo dal loro letargo, impazzirono anch'essi dimettendo in massa quasi tutti i circa 3000 ricoverati, incuranti di dove andassero a finire.

Tra di loro alcuni erano ricoverati da 30 o perfino 40 anni, come ho potuto leggere in alcune cartelle. La città in breve tempo si riempì di barboni, lasciati alla deriva, smarriti e più che mai disperati, non più curati, accuditi, lavati e imboccati.

Molti furono addirittura rifiutati dalle rispettive famiglie e iniziarono a vagare nelle tenebre senza fissa dimora affollando strade, cespugli e luoghi reconditi, trattati peggio degli animali, rifiutati da tutti ed emarginati, molti chiedevano di poter ritornare in ospedale».

Avevo sentito bene, disorientati a tal punto da voler tornare in quell'ospedale dove avevano subito percosse ed elettroshock.

Non ho voluto frenare il flusso di coscienza di Nino che certamente è mosso da una visione e da una esperienza diretta del tutto personali, secondo la propria sensibilità e ciò che ha potuto constatare con i suoi occhi che ai miei paiono sinceri.

Continuando il racconto, Nino non manca di evidenziare come da questo momento, cioè da quando furono buttati fuori dagli ospedali, i pazzi furono pure oggetto di contesa fra le case di riposo che «a scopo di lucro li mescolavano ai vecchietti già ospiti delle strutture».

Infine Nino, dopo essersi sfregato con una mano la fronte come a togliere via un ricordo cattivo, ha continuato dicendo «Avendola vissuta di persona questa esperienza posso asserire che quasi tutti morirono nell'indifferenza delle istituzioni, le strutture alternative non vennero subito perché rifiutate dalla società e rallentate dalla politica, molte furono aperte negli stessi ospedali come comunità protette ma le previste case famiglia tardarono a venire, però la legge obbligava gli ospedali ad avere i TSO».

Dal 1978, anno in cui è stata varata la legge Basaglia, Nino si è portato questo peso addosso, trovo utile scrivere che negli anni per umanità ha aiutato molti dei suoi ex pazienti incontrati casualmente in città.

Forse a suo tempo avrebbe avuto bisogno di essere affiancato ad un Patch Adams palermitano, oppure vivere al tempo di Pietro Pisani, affinché questi pazienti grazie ad una maggiore bontà d'animo degli assistenti e dei direttori degli istituti avessero potuto volare via dal “nido del cuculo”.
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