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Per i palermitani sono famosi come il Tigri e l'Eufrate: storia del Kemonia e del Papireto

Palermo non ha più fiumi a vista che serpeggiano al suo interno, ha perso la sua connotazione di “città d'acqua”, per alcuni non l'ha mai avuta, ma le fonti storiche ci raccontano tutt'altro

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 8 febbraio 2022

Straripamento del Pipireto nel 2022 (foto A. Prestigiacomo)

Serbo il ricordo, ahimé ormai lontano, che si originò nel corso della frequentazione delle scuole elementari, dei due indimenticabili e primordiali fiumi del Tigri e dell'Eufrate. Penso che ognuno di noi abbia vivo il ricordo di quanto fosse sottolineata a scuola l'importanza di questi due corsi d'acqua che diedero vita alle prime civiltà.

Certo la Mesopotamia appariva come un luogo esotico, distante anni luce da noi, eppure non passò molto tempo prima di scoprire che anche la città in cui vivevo possedeva un tempo i suoi Tigri ed Eufrate, ovvero il Kemonia (o Cannizzaro) ed il Papireto e che anch'essi (come il Tigri e l'Eufrate) agevolarono la vita dei primi abitatori di Palermo: I Sicani, i Cretesi, gli Elimi, i Greci nonché i Fenici e così via.

Della topografia antica della città di Palermo ne parlai già in un precedente articolo, qui accennerò soltanto che la vecchia Panormos (tutto porto), divisa in Paleopolis (città vecchia) e Neapolis (città nuova) era percorsa, ovvero limitata, da due corsi d'acqua che da monte scendevano sino a valle ricongiungendosi con il mare.
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Questo penetrava nell'entroterra della città, secondo gli studiosi del Seicento, a sud dell'istmo di terra sino alla Fossa della Garofala e a nord sino a Danisinni, mentre secondo quelli dell'Ottocento, Salvatore Morso e Vincenzo Di Giovanni su tutti, il mare a sud non penetrava molto oltre l'ospedale «de' Benefratelli, cioè dell'antica porta Busuemi» nell'attuale via dei Biscottai.

Oggi Palermo non ha più fiumi a vista che serpeggiano al suo interno, come le grandi città d'Europa, ha perso la sua connotazione di “città d'acqua”, per alcuni non l'ha mai avuta, ma le fonti storiche ci raccontano tutt'altro.

Il Papireto, che in vernacolo chiamiamo “u Pipiritu”, per il suo impaludamento nel corso della storia, dice Pietro Todaro, «rese vaste zone inedificabili e fu responsabile di gravi condizioni igieniche a causa di esalazioni nocive che resero l'aria irrespirabile e malsana, tanto da produrre mortali epidemie e pestilenze». La Duca ci ricorda che «lungo le sue sponde paludose, essendo causa di malsania, fu alla fine del XVI secolo deviato con condotti sotterranei ed il suo letto venne in parte ricolmato».

In merito a questo Vito Maria Amico è più specifico e ci racconta che «infettando l'aria le sue acque, stagnando in alcuni punti, nell'anno 1591 il conte di Albadeliste, queste altrove deviate per acquidocci, provvedette alla pubblica salute. Scorre quindi oggigiorno il Papireto ad un m. per sotterranei meati che si osservano in alcuni luoghi, e si scarica in mare, nel piccolo porto volgarmente detto Cala».

Il corso d'acqua del Papireto se da un lato in alcuni punti si essiccava causando problematiche igieniche, dall'altro, come dice Eleonora Continella, serviva a far «muovere numerosi mulini, ed in particolare quello di Cannamele» cioè lo zucchero di canna. Il Fazello ci dà conferma di questo e aggiunge che «Era già in quel luogo al tempo de' Saracini un molino o ver macine dove si gittavano le cannamele tagliati in pezzi piccoli, e l'olive, e dal corso del fiume eran macinate, e si chiamava Machassar, come si può vedere ne' privilegi de' Re Normanni».

Si dice che germogliasse nelle acque del Papireto una folta vegetazione di papiri dalla quale deriverebbe il nome. Su di lui si racconta perfino una leggenda, che avesse un canale sotterraneo collegato col Nilo, grazie al quale sarebbero arrivati nella nostra città perfino i coccodrilli, anzi uno in particolare del quale ancora si parla e se ne tramanda la storia perché in una taverna, nel mercato storico della Vucciria, e ancor prima ci ricorda il Basile nel portico accanto alla chiesa di San Giovanni dei Cavalieri alla Guilla, ve ne era uno impagliato o imbalsamato, attaccato al soffitto.

Della origine egizia del nostro fiume scrisse un distico in latino perfino Antonio Veneziano “Me Nilus genuit; nomen fecere Papyri. – Quae fueram unda salo, sum modo lynpha solo”, cioè “Traggo origine dal Nilo e il nome dal Papiro; ed io che ero stato onda del mare, ora son corso d'acqua terrestre”. Il distico, riportato in una lapide di marmo, si trova oggi nella sacrestia della chiesa di San Giovanni alla Guilla.

Le acque del Papireto, che defluivano nelle case dei privati ed alimentavano pubbliche fontane, erano alimentate a loro volta da un “bacino idrografico” coincidente con la fossa di “Denisinni”, dove un tempo le lavandaie lavavano i “pannilini”, e attraverso un letto di fiume, compreso pressappoco tra le vie Cappuccini e Cipressi, che si raccordava con una seconda fonte detta dell'Averinga, penetrava all'interno della città attraversando una depressione del terreno oggi corrispondente al Corso Alberto Amedeo e alla via Papireto, quindi le acque attraversavano l'attuale via Gioiamia, piazza San Cosmo, piazza Beati Paoli, la via Judica, e si dirigevano verso il vecchio quartiere della Conceria prima di congiungersi con il mare.

L'altro corso d'acqua della città era il Cannizzaro, ovvero l' “Aynnizzar” o “Hain-nazr” degli arabi che significa “fiume piccolo”, a noi noto col nome normanno Kemonia (torrente) e volgarmente detto “fiume del Maltempo” o “d'Inverno”. A dire dello Scinà e del Morso, d'inverno traeva origine dalle colline di Monreale e scendeva sino al «Parco di Villa D'Orleans (o Villa D'Aumale) dove esisteva una emergenza nella cosiddetta Fossa della Garofala, oggi non più apprezzabile nella primitiva ampiezza per le opere di canalizzazione del torrente e per l'esecuzione di opere di rinterro».

Questo corso d'acqua delimitava a sud la vecchia Panormos e prima di sfociare a mare attraversava il quartiere dell'Albergheria percorrendo la via Porta di Castro, piazza Casa Professa, via Ponticello e via Calderai. Se il Papireto fu sotterrato perché causa di “malsania”, il Kemonia fu deviato perché, essendo un corso d'acqua a carattere torrentizio, spesso straripava.

I diari della città annotano numerose alluvioni nel corso dei secoli che hanno causato enormi danni e ingenti perdite di vite umane. Sono note le alluvioni del 1557, 1666, 1689, 1692, 1769, 1772, 1778, 1851, 1931, 1954. Dopo quella del 1557 «le acque del Kemonia furono deviate nel fiume Oreto che scorre più a sud del centro storico. Con la nuova alluvione del 1666 si dettero inizio ai lavori di costruzione dei cosiddetti “fossati del maltempo”, al di là delle mura meridionali, che avevano origine nell'attuale fossa della Garofala e giungevano sino al mare».

In merito a quest'ultima alluvione, parlando della Porta di Castro, Rosario La Duca ci riferisce un fatto curioso: «Nell'inondazione del 27 novembre del 1666, il Kemonia riprese il suo antico letto, ma trovò lo sbarramento della nuova porta e certamente l'avrebbe travolta causando enorme rovina se – come riferiscono le cronache del tempo – il suo custode Scipione Valdera, rivolgendosi ad un'immagine di Santa Rosalia affrescata nel lato destro della porta stessa, non l'avesse pregata “con molte lagrime a soccorrer la sua patria”. Ed aggiungono le cronache che la verginella romita del Monte Pellegrino “accorse alle preghiere del buon cittadino, e impetrò, che la porta s'aprisse piano piano; rottisi i travi ben grossi, che la sostenevano, e piegatosi il grosso catenaccio di ferro, che la chiude: onde entrò il torrente con minor furia e danno”».

È da molti secoli quindi che la città di Palermo non vede i suoi fiumi cittadini, inabissati e deviati per le dette ragioni, tuttavia qualche anno fa, il violinista ericino Alessandro Liborio, inventa il modo di “far tornare a galla” gli antichi fiumi del Kemonia e del Papireto, attraverso un'idea promossa dall'assessorato alla cultura del comune di Palermo.

Liborio, infatti, con il progetto “Palermo a Palermo, il Suono dei Fiumi”, attraverso un'istallazione sonora realizzata con «148 speaker e 3 chilometri di cablaggio elettrico» ha diffuso il suono dei fiumi all'interno di un percorso di 728.296 mq nel centro storico della città di Palermo, lasciando immaginare ai viandanti per qualche istante che il tetro asfalto o l'antico lastricato si potessero trasformare nella limpida acqua dei fiumi.

È di quest'anno invece l'ultimo tentativo di straripamento del Papireto. Per tornare a rivedere il volto della sua città, di tanto in tanto straripa il Papireto. Avessimo tutti la sua caparbietà, la sua forza, la sua voglia di riemergere dal fondo, che bella che sarebbe Palermo. Ma non c'è da disperare in fondo “siamo fatti per il 90 % di acqua”.

(Per approfondimenti consiglio la lettura di Il sottosuolo della città di Palermo: caratterizzazione geologica del centro storico di Vincenzo Liguori e Gioacchino Cusimano in Bollettino della società dei naturalisti in Napoli, Vol. LXXXVII, 1978; Le paludi del Papireto e la bonifica idraulica del XVI secolo di Pietro Todaro; Palermo città d'acqua aspetti Storici e Naturalistici dell'Acquedotto di Maria di Piazza; La fonte della ninfa nella contrada palermitana della Guilla di Eleonora Continella)
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