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Perché a Palermo c'è via Terra delle Mosche: dov'è la strada dal nome (quasi) maledetto

Ci sono tante versioni del perché questo luogo si chiami così, alcune rassicuranti, altre meno. Un posto che ha ospitato anche un pezzo di storia della città

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 30 agosto 2022

Via Terra delle Mosche a Palermo

A Palermo c’è una strada che già dal nome fa venire voglia di spendere tutti i risparmi in DDT: via Terra delle Mosche. Come al solito, se avete fretta, in fondo all’articolo tutti i dettagli, altrimenti mi fate compagnia in questa passeggiata.

Le lezioni del professore Terranova erano sempre un po' atipiche.

Un giorno, in seconda media, entrò in classe dicendoci che se Socrate, "sapendo di non sapere" era passato alla storia come una delle menti più brillanti dell’antichità, allora c’erano buone probabilità che il preside sarebbe passato alla storia come uno dei più grandi babbasoni, perché non sapeva niente ma credeva di sapere tutto.

Quel diverbio era nato per colpa di un’epidemia di mosche che infestava la scuola "G.A. Cesareo" come le cavallette in Egitto ai tempi di Mosè.

E siccome si usciva alle 11.00, proprio perché era prevista la disinfestazione, fatto l’appello, Terranova fece a me e Carollo segno di seguirlo: per quel giorno aveva programmato un cineforum a tema e dovevamo aiutarlo a salire il videoregistratore e la piccola tv che si era portato da casa.
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La pellicola in questione era La Mosca, cult horror degli anni '80, dove il protagonista, per colpa di un esperimento andato a male, si trasforma pian piano in un moscone gigante e schifoso che sputava acido.

Il film deve essere stato anche un bel po' commovente, perché nella scena in cui Jeff Goldblum (il moscone) si strappa via le unghie delle mani, mezza classe si mise a piangere.

Finita la proiezione, il professore ci spiegò che il film in realtà era una rilettura de "La Metamorfosi" di Kafka, un capolavoro della letteratura in cui un impiegato si trasforma in un insetto e gradualmente, ritenuto diverso, finisce per essere isolato dalla famiglia e allontanato fino a trovare la morte.

A noi questa cosa di "Caffica" e de "La Mosca" onestamente ci fece impressione assai, specie quando entrò il bidello per leggere la circolare e gli cadde la dentiera dalla bocca: pensammo che pure lui era affetto dalla maledizione di "Caffica".

Perdonatemi, ma la premessa era necessaria perché forse accorgendosi di averci spaventato, il professore Terranova decise di fare una delle sue solite gitarelle cittadine per esorcizzare la paura.

Telefonata a casa per avvertire i genitori, 20 mila lire all’autista dello scuolabus e via in centro. Prima fermata alla Cala, il porto antico della città.

Di fronte a noi la Chiesa di Santa Maria della Catena, che, come ci spiegò il professore, "trattasi di eccellente esempio di stile gotico-catalano".

Appena disse così, tutte le femmine si girarono ad ammirare Catalano, il più desiderato della scuola, sia perché avendo ripetuto la seconda media per tre volte aveva il fascino dell’uomo di mezz’età, sia perché era un partito buono, dato che il pomeriggio lavorava in officina.

Era da questa chiesa che anticamente la notte veniva tirata su una grossa "catena" che sorvolava tutto il golfetto della Cala, per arrivare dall’altra sponda del porto, e impedire a corsari o nemici di entrare in dal mare con le imbarcazioni al calar della luna.

Di fronte a questa chicca, pure Catalano rimase sorpreso: «Io non c’entro niente, forse mio nonno ci colpa». Ad un certo punto riaffiorò la paura: una colonna di fumo s’alzava imperiosa verso il cielo.

«Professò, un incendio!». Per fortuna non c’era nessun incendio, era solamente lo stigghiolaro. Dall’altra parte della strada, infatti, precisamente al numero 800A - così almeno c’era scritto nel muro dietro il signore - ci stava una brace sulla quale s’affumicavano dolcemente questi spiedi di budella per la quale i palermitani sono sempre andati pazzi. Il professore ne ordinò subito una maxi-porzione da fare assaggiare a tutti noi.

«Canziatevi!», esclamò quel signore col coltellaccio in mano. La richiesta di "canziarci", cioè di spostarci, in realtà viene fatta per l’incolumità del cliente, perché durante il taglio a tocchetti schizza fuori veramente di tutto.

E nonostante la modalità araba di condividere tutti dallo stesso piatto - perché guai a non mangiare le stigghiola dal piatto in comune e con le mani - Terranova ci raccontò che il piatto deriva dall’antica Grecia.

Era tradizione nelle Agorà siciliane consumare questo piatto in compagnia, mentre si facevano discorsi fra persone intelligenti. «Infatti a quel babbasone del preside non gli piacciono!», sottolineò pure.

Ma quella gitarella non aveva solo la finalità di ristorarci, bensì di farci scoprire una cosa che non avremmo mai immaginato. A tirata di sguardo, proprio accanto al conservatorio, ci stava superstite il torrione di una chiesa sparita sotto i bombardamenti nel 1943.

Era in questa chiesa - Santa Maria dell’Annunziata - che nel 1517, un capopopolo di nome Gianluca Squarcialupo, dopo aver messo in atto una rivolta contro una casta nobiliare e preso il comando di Palermo, veniva tradito dal barone di Ciminna e ucciso in un agguato.

«Perché quando una cosa non va bene - ripeteva - dovete essere voi stessi a cambiarla. Già la vita fa schifo…».

E a proposito di rivolte e mosche, dopo averci fatto pulire le mani con il limone, ci fece risalire in via Chiavettieri, che prendeva il nome dai vecchi fabbri che ci lavoravano producendo chiavi e altri oggetti in metallo.

Ancor più indietro nel tempo però si chiamava via de’ Zippunari perché si facevano giacche e giubbe. La nostra meta per non era quella, anche se c’eravamo vicini.

Proprio in via Chiavettieri, quasi a raggiungere via dei Cassari, ci sta nascosta una strada che porta fino alla via del Garraffello: la via Terra delle Mosche.

Tutti le mani in testa mettemmo appena qualcuno lesse il cartello. La verità era però molto più dolce. Questa strada dal nome quasi maledetto si chiamava così perché c’era sempre un via vai di persone da fare sembrare la folla uno sciame di mosche. Infatti ospitava vari studi notarili e le logge dei Genovesi e dei Catalani.

A sentire il suo cognome Catalano si sentì richiamato in causa: «Ma noi veramente sempre al Villaggio Santa Rosalia abbiamo abitato…».

Altri invece dicono che via Terra delle Mosche si chiami in questo proprio per via del numero di mosche che ci circolavano a causa di condizioni igieniche non proprio da Guida Michelin.

La versione poco ci interessa, ognuno scelga la sua. Quello che invece ci riguarda è che proprio in questa via ci abitava il nostro Gianluca Squarcialupo.

Purtroppo non ci sta più, né la gente né la casa del capopopolo: dopo la sua uccisione l’abitazione fu desolata e disseminata di sale.

Il racconto del professore Terranova ci aveva rapiti e quando i bambini sono affascinati fanno domande. «Professò, e cosa diceva questo Squarcialupo?», e lui rispose: «Ah cosa diceva non lo sappiamo, però secondo me ripeteva spesso “se vuoi stare bene lamentati… Ora andiamo più sotto che c’è il panino con la milza».
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