STORIA E TRADIZIONI
A Palermo una fonte d'acqua che si inabissa: c'era una volta la sorgente dell'Averinga
C'era un'abbondante quantità d'acqua che sgorgava vicino alla contrada Colonna Rotta. Nino Basile ricostruisce la sua storia nella sua "Palermo felicissima"
La sorgente dell'Averinga
Con questa premessa, oggi vorrei parlarvi della sorgente dell'Averinga e della sua edicola, edificata nel '500 al fine di custodirla. Stiamo parlando di una abbondantissima polla d'acqua che sgorgava vicino a quella contrada che nel Settecento prese la denominazione di Colonna rotta (di cui abbiamo parlato qui).
Già nel periodo arabo la sorgente era ben nota e l'etimologia del nome, secondo Francesco Emanuele e Gaetani Marchese di Villabianca, deriverebbe proprio dall'arabo "Havarlaing" o "Haimberirling" (fonte che sgorga e poi, svanendo, si inabissa). Infatti appariva sotto una balata nell'orto di Giacona dei duchi di Sorrentino, una volta chiamato di Pollina ed Occhipinti, situato fuori Porta Nuova.
Dobbiamo però allo storico Nino Basile la ricostruzione della storia della sorgente e dell'edicola Averinga, nella sua opera del 1929 "Palermo felicissima". Difatti in precedenza, dopo un abbandono del sito e della sua memoria durato alcuni secoli, che ridusse l'edicola ad una stalla, il 10 settembre 1882 Enrico Salemi (studioso dei monumenti di Palermo e membro della Società Siciliana di Storia Patria), durante un seduta dichiarò e descrisse l'esistenza di una "sala del XVI secolo nei giardini di Denisinni" (l'edicola), ritenendola una sala da bagni. Interpretazione errata che divenne di uso popolare ed infatti, fino a qualche tempo fa, alcuni residenti la denominavano "bagni della regina".
Ma ecco la ricostruzione della storia narrata da Nino Basile. Nel Cinquecento, durante dei lavori di bonifica attivati dal Senato di Palermo nelle zone limacciose e malariche attraversate dal Papireto (denominate lago di Buonriposo), fu scoperta una fonte costituita da "parecchie bocche di rocca" le cui acque sgorgavano da "un masso di vive selci".
Ossia dalla balata a cui si riferiva il Villabianca e con la quale veniva chiamata quell'area. Nel 1553, sotto il viceré Giovanni Vega e con il pretore Cesare Lanza, le copiose e cristalline acque della fonte vennero raccolte in "un'ampia conserva circondata da marmi", sui quali fu affissa una lapide senatoria. Tale iscrizione, associando la fonte dell'Averinga (sotterranea e poi sgorgante in un luogo ricco di papiri) a quella siracusana dell'Aretusa, rappresentava in qualche modo l'origine dal Nilo delle sue acque.
La fonte Averinga approvvigionava le case private e diverse fontane come quella della Guilla, della Ninfa e del Garraffo, tanto che la sorgente veniva definita "Testa del Garraffo". Ma in seguito la negligenza tipica palermitana prese il sopravvento ed il luogo ridivenne sporco e limaccioso. A quel punto, nel 1587, intervenne il pretore Andrea Salazar, che fece raccogliere ed incanalare le acque preservandole con la costruzione di un'edicola, inaugurata con l'affissione di una seconda lapide accanto alla precedente.
La nuova targa, oggi conservata nella sacrestia della chiesa di S. Giovanni alla Guilla, riporta i seguenti versi del poeta Antonio Veneziano: «Me Nilus genuit, nomen fecere Papyri; quae fueram unda salo, sum modo limpha solo - Antonii Venetiano distycon" (Vengo generato dal Nilo e prendo il nome dal papiro ed io, che ero onda del mare, ora sono corso d'acqua terrestre - Distico di Antonio Veneziano). Fino al 1630, come descriveva il letterato Baronio Manfredi, la sorgente era circondata da giardini profumati di fiori e di frutti: mele puniche (melograni), erbette, cedri, viole, rose ed abbondanti viticci che "producea ombra ed il tutto componea un luogo adatto alle Muse». Insomma, un luogo da sogno ormai perduto.
Accanto all'edicola, a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo, fu edificata una chiesetta chiamata Madonna della Grazie l'Averinga (oggi non più esistente), che incamerò il muro esterno dell'edicola insieme alle due lapidi affisse. Ogni anno il 5 di agosto, a spese degli agricoltori residenti, vi si celebrava la festa della Gran Signora della Grazia.
Oggi ciò che rimane dell'edicola si può vedere fra via Gabriele Vulpi e via Giuseppe Albina. La costruzione, in tufo e a sala unica, rispecchiava lo stile gotico-catalano ancora in uso in quel periodo, con una grande finestra trifora in una delle pareti laterali, decorata da due sottili colonne in marmo bianco dotate di capitelli, come a sostenere l'architrave.
L'altra parete risulta ormai chiusa da costruzioni addossate. L'ingresso principale mostra ancora degli ornamenti floreali agli angoli della cornice lineare in pietra da taglio che circonda la porta. Inizialmente, quando fu costruita per preservare la sorgente, l'edicola era scoperta. Ma in seguito, una volta destinata ad altri usi (stalla, magazzino, cantina) fu chiusa da una copertura sostenuta da otto cavalletti in legno.
Esattamente così la vide il Salemi, che riscontrò pure come internamente resisteva uno dei due magnifici rosoni in maiolica smaltata in vari colori con motivi di foglie e frutta, anche se il pigno centrale era già stato divelto. Alle pareti esistevano i segni della presenza di mattonelle di ceramica dipinte e già scomparse. Mancava anche un'aquila senatoria riportata in una relazione del XVII secolo, probabilmente di G.B. Battaglia, che descriveva "una stantia scoverta con l’armi della città".
Si presume che l'aquila fosse collocata sulla porta d'ingresso ed inoltre si nota ancora oggi, all'angolo destro esterno della costruzione, un mezzo pilastro in pietra da taglio, che fa pensare alla possibile esistenza di un portico che precedeva l'accesso all'edicola. Quando lo visitò il Basile, l'edificio era stato ulteriormente sconvolto, con profondi scavi, dal signor Zavitteri, proprietario dell'epoca. Più di recente, una delle due colonnine della trifora fu trafugata e in seguito ritrovata.
Entrambe, così come l'immagine della Madonna della Grazia della chiesetta, sono ora custodite in altro luogo per salvaguardarle da azioni di vandali e malintenzionati. Sui loro capitelli, spariti anch'essi, pare che fossero riportati gli stemmi di famiglie aristocratiche del tempo; le quali avevano collaborato, con i loro finanziamenti, all'edificazione dell'edicola.
Ancora oggi turba la lettura delle amare riflessioni conclusive di Basile e del Salemi per lo stato di abbandono e di degrado, da essi rilevato, di un così importante sito monumentale. In particolare Basile denunciò il fatto che fosse stata intitolata una strada a Zavitteri, responsabile della rovina dell'edicola, e non al pretore Salazar che l'aveva ricostruita.
Anche la sorgente risulta ormai esaurita da moltissimo tempo. Incuria, negligenza, incoscienza, mancanza di amore e di senso civico per il proprio territorio ed il proprio patrimonio culturale e artistico non è cosa nuova, come questa storia ci racconta. Riflettendo sul sempre attuale rammarico del Basile, c'è da chiedersi quando si risveglierà, nell'animo di tutti, quella scintilla che spinga a comprendere quanto sia preziosa e assolutamente da tutelare la ricchezza dei nostri beni. Mentre rimane lo sconfortante dubbio che la pessima abitudine di inneggiare a Barabba sarà davvero dura a morire.
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