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Altro che francesi, i (veri) ribelli sono palermitani: chi si ricorda la rivolta del 1560

La Sicilia e i siciliani vantano diverse rivolte nel corso della loro storia, ma badate, parliamo di rivolte, non di rivoluzioni. Se solo oggi fossimo più coesi, chissà...

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 1 gennaio 2024

Recentemente si sta diffondendo un curioso luogo comune che addita i francesi come veri rivoluzionari rispetto, ad esempio, agli italiani. Certamente questo modo di pensare è figlio della grande risonanza che ha ancora oggi l'episodio storico della Rivoluzione francese, ma è anche figlio delle note proteste del popolo francese che riguardano i nostri tempi, proteste le quali sortiscono effetti politici concreti. Effettivamente più che un luogo comune è un dato di fatto.

Noi italiani siamo più accondiscendenti. Si dice che gli stipendi in Italia, tranne quelli di qualche categoria, siano sempre gli stessi da trent'anni e che il costo della vita è aumentato in maniera spropositata e continua ad aumentare. Si protesta, certo, ma bastano due tre motivazioni in TV per abbonirci e farci desistere.

Tuttavia non è sempre stato così. La Sicilia e i siciliani vantano diverse rivolte nel corso della loro storia, ma badate, parliamo di rivolte, non di rivoluzioni, eppure se solo oggi fossimo più coesi, chissà...
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La Sicilia nella seconda metà del XVI secolo fa parte dell'Impero spagnolo; Carlo V è morto da due anni e al suo posto regna il figlio Filippo II, appena uscito indebolito dalla guerra contro la Francia. Filippo essendo a corto di risorse economiche impone una pressione fiscale alle colonie spagnole.

A farne ovviamente le spese è il popolo. Nel Cinquecento le gerarchie nei governi delle maggiori città europee erano composte in maniera simile tra loro: re, religione, nobiltà e popolo, la borghesia esisteva, ma non era conscia di se stessa come lo fu nel XVIII secolo e la classe politica dipendeva dalla corte.

Per sistemare i conti della corona, Filippo impose di aumentare il prezzo del pane e diminuirne il peso in seguito anche ad una carestia di grano che colpì il suo regno in quegli anni. Palermo, settembre 1560.

La città ha un debito pubblico di diciottomila onze, l'amministrazione cittadina propone varie soluzioni: «Così, una soluzione prospettata era stata quella di riscuotere i crediti della città e con il ricavato pagare i debiti; oppure applicare una imposta ai cittadini facoltosi e tassare i poveri e i nullatenenti ad “arbitrio boni viri”; o ancora di far pagare in rapporto ai beni tutti i cittadini, tanto i residenti quanto quelli che abitavano altrove, persino i baroni».

Tra le tante proposte vagliate dal consiglio civico, a far insorgere il popolo palermitano il 23 settembre 1560 fu la scelta di «imporre nuove gabelle o di aumentare in qualche modo il prezzo di calmiere di alcuni generi di prima necessità, il pane in primo luogo».

Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la diminuzione della qualità e del peso del pane: «la cura di provvederne la città di Palermo correndo a carico del Senato, e del Pretore allora D. Geronimo del Carretto Conte di Regalmuto: questi chiamati a consiglio oltre de' Senatori alcuni de' Nobili e Plebei, propose loro che si dovesse abbassare il peso del pane, acciocché l'erario della città soffrisse minore interesse nella compra, e nel consumo de' grani».

Il malcontento montava tra le strade e le piazze della città perché gli aumenti riguardavano anche altri prodotti di prima necessità come olio e formaggio.

Riversatasi davanti il palazzo del pretore la folla gridava all'unisono "Fora gabelli! Fora gabelli!" e tra l'immane calca di gente un uomo brandiva in una mano una spada che volteggiava in aria e nell'altra un pane e gridava contro le finestre del palazzo pretorio e contro il pretore “Chi pani è quisto?”, rimembrando il tempo in cui vi era stato un altro pretore, Cesare Lanza (padre della baronessa di Carini) durante l'amministrazione del quale il grano costava sì di più ma il pane era di migliore qualità di quello che brandiva.

Pian piano la folla si andava sempre più infervorando, guidata dalle maestranze e da alcuni uomini di popolo rispettabili tra cui il notaio Cataldo Tarsino e il sarto Minico Morello.

Il viceré duca di Medinaceli, saputo della rivolta, trovandosi a Messina, tentò per sedarla di rientrare in città con le sue truppe prima possibile. Intanto, a piazza Pretoria, ancora mancante della fontana che costò quindici anni dopo questa rivolta ventimila onze, quindi più del debito pubblico in questione, (capite dunque quale fu la vera vergogna) era arrivato il capitano della città Gaetano Lo Porto il quale vedendo la baraonda tentava di quietare gli animi. Il pretore Geronimo Del Carretto che era rimasto chiuso nel palazzo, fuggì di nascosto a cavallo accompagnato dal capitano.

I due si tirarono dietro la folla inferocita, passarono per la via della ferreria (via Calderai) e si diressero verso la chiesa della Misericordia (piazza Sant'Anna). A questo punto il capitano Lo porto si fermò a parlare con la gente nel tentativo di calmarla, mentre il pretore continuava la sua fuga. La folla voleva certezze e chiedeva che venissero redatti degli atti pubblici, ma il capitano rispose che doveva bastare la sua parola.

Tutto questo mi sembra d'averlo visto in un film, già, andatevi a riguardare La maschera di ferro, in particolare il momento nel quale D'Artagnan seda la folla davanti a Versailles. Ma torniamo alla vicenda.

Cataldo Tarsino con dietro una fetta de rivoltosi incontra per strada il secreto di Palermo Andreotta Lombardo, il quale tenta di ucciderlo con un colpo di pistola, ma l'arma non spara e allora la gente lo insegue con le spade strette alle mani.

Il secreto, correndo come una lepre, per tentare di seminare la gente inferocita, imbocca la strada di San Francesco. Davanti la corte del pretore frattanto sopraggiunge il conte di Vicari in qualità di Luogotenente del mastro giustiziere, il quale si affianca al capitano Lo Porto.

I due tentano ancora di sedare con le parole la rivolta quando, finito l'inseguimento del secreto senza successo, arriva anche Cataldo Tarsino, al quale si rivolge il conte di Vicari per disperdere la folla, ma il Tarsino vibrò due coltellate ad un uomo avverso e ferì persino il capitano Lo Porto. A questo punto la folla non era più controllabile, al capitano e al luogotenente non restava che la fuga.

La rivolta dunque sfociò anche nel saccheggio di case e nella devastazione della città. Perché tutto fosse sedato bisognò che arrivasse il Viceré con le sue truppe.

Catturati i capipopolo furono processati e giustiziati, il notaio Cataldo Tarsino fuggì in Calabria, a Paola, nella sua città natale, ma il re Filippo II mise una taglia su di lui, cosicché, non avendo via di fuga, pare si recò a Madrid per chiedere la grazia al sovrano, ma fu catturato e successivamente, dopo essere stato riportato in Sicilia, giustiziato a Messina nell'agosto del 1566. La morte del Tarsino mise fine a qualsiasi altro tentativo di rivolta popolare per un buon lasso di tempo.

Il dato interessante di questa rivolta per il costo del pane o per il carovita, non è la motivazione, per quanto legittima, ma la coesione dei cittadini rispetto ad un problema comune. Se traslassimo la vicenda ai nostri tempi non vedremmo una tale coesione neanche in una sola città, figurarsi in un'intera nazione.

Questa rivolta fa riflettere perché è un notaio a divenire capopopolo, promotore della rivolta stessa. Avrà avuto sicuramente i suoi interessi personali, che purtroppo non sapremo mai, ma oggi lo vedreste un notaio, un dottore, un preside, un ricco imprenditore ecc., battersi per la sopravvivenza del popolo di cui fa parte e non semplicemente per i propri interessi? No! Il nostro popolo è già diviso in se stesso ed è questa divisione la migliore arma di un re, di uno Stato "divide et impera".

Questo fa la differenza in una rivolta, la coesione, e finché non avremo una coscienza sociale le battaglie per i nostri diritti ad avere una vita dignitosa saranno sempre giustiziate in pubblica piazza e il pessimismo dilagante, in conseguenza alle sconfitte, sarà un'ulteriore strumento di vittoria di chi governa.

(Per un approfondimento sulla storia della rivolta di Palermo del 1560 consiglio un pregevole studio di Rossella Cancila Il pane e la politica la rivolta palermitana del 1560; Biblioteca storica e letteraria Vol. I pag. 23 e pag. 234; Palermo Ristorato di Vincenzo Di Giovanni in Biblioteca storica e letteraria serie seconda Vol. I pag. 288, 308, 381 );
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