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I giochi proibiti e le scommesse degli “sbarbati” nella Palermo dei Vicerè

  • 8 settembre 2006

I videopoker, la bingomania, il lotto clandestino e il totonero, compresa la pratica nefasta degli altri congegni elettronici che rovinano le famiglie d’oggi, ebbero antenati ugualmente scellerati nel Settecento. Per questo, considerato che il gioco d’azzardo era allora la predominante passione che accomunava i cittadini di qualsiasi stato, grado e condizione, si susseguirono per decenni i bandi vicereali e dei capitani di giustizia che punirono la consuetudine di simili “spassi” a suon di pubbliche nerbate e con anni di remo sulle navi da battaglia.

Esemplare fu, per citarne uno, il bando del 13 agosto 1737 che recava la firma del vicerè Bartolomeo Corsini e che – da valere in perpetuo – vietava ogni gioco d’azzardo tanto dentro le città, terre e luoghi abitati quanto fuori di essi in quanto causa originaria d’infiniti furti, frodi, omicidii, assassinii, sacrilegi ed altri delitti che alla giornata si comettono. Mentre è sicuramente interessante la sfilza dei giochi vietati che avevano nomi ora del tutto dimenticati e tuttavia espressivi del loro articolarsi, ove non semplicemente ridicoli.

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Baratteria di carte, dadi, palle, biribisso, rassetta, cartetta, faragone, tredici e quindici, di sola zara e di pirata e di qualsiasi sorte consimile con qualunque nome possa essere nominato il gioco. Ma ridere non facevano davvero le pene per quanti fossero stati sorpresi a giocare d’azzardo. Anche se la passione originariamente unica e totalizzante dei suddetti giocatori d’ogni stato e condizione differiva poi – riguardo alla punizione - a seconda del rango dei denunziati. Perché se l’arrestato era un ignobile, questi beccava inevitabilmente tre anni di dura galera, mentre quegli stessi anni i nobili e i gentiluomini li avrebbero eventualmente trascorsi dentro castelli e fortificazioni dove inevitabilmente, ma senza tante restrizioni, i giochi proibiti essi continuavano a praticarli anche in compagnia dei “carcerieri”.

Ma la secolare discriminazione che per tutto il cinquecento e oltre portò sul rogo gli omosessuali che si macchiavano di rapporti innominabili – latinamente nefandi – procurò non pochi guai aggiuntivi a quelli che oggi definiamo gay e che a quel tempo rientravano nella categoria unica dei giovani sbarbati ed effeminati. Crudamente esemplare, il combinato disposto di un seicentesco regolamento di polizia cittadina che puniva in maniera molto severa il caso dei giovani sbarbati ed effeminati che, entrando nelle case da gioco ove si teneva barattaria, solevano perciò essere causa di diversi delitti, con molto scandalo (sic) di delitti nefandi.

Al punto che quanti regolamentarono la fattispecie penale affidarono le loro disposizioni al pubblico banditore il quale, preceduto dal suono dei rituali trombetti, fece ripetutamente sapere che nessuno doveva ardire di ammettere o di far giocare nelle bische quei malcapitati di barba rasa e femminei. Magari aggiungendo il famoso “e non altrimenti” che non ammetteva deroga. Senza nessun pretesto "etiam che fossiro parenti, sotto pena alli padroni di pagare onze 25 et alli sbarbati che si troveranno, 50 staffettati al pubblico et altre pene ad arbitrio dell’illustre Capitano".

Pene arbitrarie che potevano pure comprendere la messa alla gogna dei giocatori rasati, da scontare – per il danno economico eventualmente causato ai familiari – con le braghe abbassate e seduti, per sadico contrappasso, sulla fredda e infamante balata di marmo riservata di solito ai debitori definitivamente inadempienti.

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