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I "lustrini" espropriati e i giorni delle scarpe sporche

  • 25 maggio 2006

Se è vero che il mondo scoprì l’Italia dei poveri nel ’46, dopo l’uscita dell’indimenticabile “Sciuscià” di Vittorio De Sica, è altrettanto sicuro che allora erano già passati quasi tre anni da quando negli Stati Uniti moltissimi avevano cominciato a sapere della fame nera di quest’Isola. Ovviamente, dalle lettere dei loro soldati che qui venivano derubati di tutto, compresi gli irresistibili scarponi ben puliti dai lustrascarpe che a dozzine s’aggiravano per tutto il centro. Ma lucidati anche dai nostrani sciuscià che - nella città “mutilata” e dalle eterne contraddizioni – s’erano infine messi assai meglio degli struggenti Pasquale e Rinaldo di via Veneto, dopo essersi assicurati dei posti fissi sui marciapiedi meglio frequentati.

Ed è proprio di parecccchi di quei lustrascarpe stabili e di una loro grottesca disavventura che vogliamo raccontare. Episodio avvenuto tanto tempo dopo la scomparsa degli alleati, e cioè nel 1955. Quando in città quegli artisti del lucido erano popolarmente noti come gli “allustra” ma erano gratificati sui giornali col più nobile e ormai perduto appellativo di “lustrini”. E per inquadrare la “serietà” di quel lontano caso basta dire che una settimana del settembre di quell’anno “L’Ora” la identificò con certi memorabili giorni in cui “molti palermitani eleganti camminarono con le scarpe sporche”. Perché, se allora erano praticamente scomparsi gli sciuscià straccioni, i professionali successori disponevano ormai tutti di un cassone su cuscinetti a sfera, che costava 3600 lire annue per l’occupazione del suolo pubblico, sul quale troneggiava un seggiolone con a lato gli armadietti per gli arnesi e vari prodotti cosmetici. Tra i quali erano di fondamentale importanza le nutrienti creme per la pelle di capretto che venivano spalmate prima del lucido. Prodotto di marca, quest’ultimo, ma a volte di personale e segreta formulazione e che veniva esaltato con l’uso sapiente e veloce di morbide strisce di lana. Né meno importanti erano i cartoncini che durante il servizio s’inserivano tra scarpa e calza per evitare l’imbrattamento dovuto alle spazzole vorticosamente maneggiate.

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Va da sé che le estremità calzate i clienti le poggiavano alternativamente sull’apposito trespolo. Per cui, a chi non seguiva attentamente il lavoro o si “pappariava “ sul seggiolone col giornale aperto, il momento di porgere l’altra scarpa veniva sottolineato da un delicato colpo col legno della spazzola all’altezza del tacco. Né abbiamo dimenticato il raffinato lustrino che allo scopo, sotto i ficus del Politeama, riuscì ad avvalersi dello squillo d’un campanello elettrico. Ma per concludere con la “settimana delle scarpe sporche” bisogna dire che almeno una decina di quei lustrini, la mattina del 10 settembre ’55, dovette amaramente constatare l’inspiegabile sparizione dei carrozzoni che erano stati portati via previo taglio delle catene che li assicuravano a pali e alberi.

E furono gli onnipresenti cocchieri delle carrozzelle a far sapere agli sfortunati lavoratori che la notte prima erano stati gli operai del Comune gli autori dell’incredibile sequestro. Mentre l’indomani il mistero del repulisti fu chiarito anche al grande pubblico. Dai giornali si apprese che al Municipio avevano scoperto che la tassa pagata per l’occupazione del suolo pubblico valeva solo di giorno. E che di conseguenza ai lustrascarpe multati ed espropriati toccava, ogni sera e pena il sequestro del mezzo di lavoro, “carriarsi”, cioè trascinarsi fino a casa i seggioloni e tutto il resto, pezze e lucidi compresi. Come detto, non fu questione da niente e non si risolse in un solo giorno. Né mancarono i testimoni alla scomposta reazione, davanti all’ufficio competente, di un paio di “lustrini” che la casa avevano potuto trovarla solo a Mezzo Monreale.

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