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I pendolari della solitudine

  • 12 giugno 2006

“I vecchi non muoiono. Si addormentano e poi dormono troppo a lungo”. Le cito così, a memoria, le parole che Jacques Brel dedicò ai protagonisti di una sua canzone indimenticabile e che mi è tornata in mente leggendo su un vecchio giornale ciò che un anonimo cronista raccontò di certi palermitani anziani. Di quelli che a fine anni settanta venivano identificati con i “pendolari della solitudine". I pensionati che non avevano più niente di veramente urgente da fare. Senza qualcuno che al mattino gli chiedesse soltanto “come va?” e che - comunque poveri di relazioni umane - cominciarono a moltiplicarsi dopo una generosa delibera comunale. Quella che dette loro la possibilità di disporre di un abbonamento Amat a prezzo stracciato.

Era facile individuarli in ogni quartiere, specialmente alle fermate degli autobus. Portavano abiti stazzonati ma non rinunciavano ad annodarsi una cravatta lucida di vecchio. E reggevano un sacchetto della spesa riciclato, pieno di chissà che cosa. La mattina salivano sul primo bus che capitava e si lasciavano portare fino ai sobborghi più lontani. Verso il mare di Mondello o dello Sperone, a respirare l’aria buona di Ciaculli o di San Martino. Ma dai torpedoni – loro li chiamavano ancora così – non scendevano se trovavano qualcuno con cui scambiare ricordi e parole. A volte andavano a far colazione, con un bicchiere di vino e una pagnotta morbida, in una taverna qualsiasi dalle parti di Casa Professa o del Borgo Vecchio. E poi di nuovo sugli autobus a fare incetta di voci la cui eco avrebbe reso più tollerabili le notti.

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Accadeva pure che negli ospitali mezzi pubblici i “pendolari” si addormentassero di gusto. E quando al capolinea gli autisti provavano a svegliarli, diventavano intrattabili. Né lesinavano male parole a chi disturbava quel loro sonno in compagnia di qualcuno. Perciò ancora più spesso il personale Amat li lasciava dormire a sazietà. E fu in qualche modo “per colpa” di quei pendolari se un pensionato di nome Francesco, il cognome non importa più, senza rendersene conto visse la sua ultima giornata assurda. Per lui doppiamente tale per essere stato tragicamente preso per uno dei coetanei senza meta nè scopo, ai quali non voleva assomigliare. Perché, al contrario, lui voleva sentirsi ancora capace di fare qualcosa di utile per la famiglia che aveva numerosa.

Era stato anche per questo che un giorno di primavera del 1980 era entrato di buon mattino sul bus che doveva portarlo all’Anagrafe di via Lazio. Anche se, prima di uscire di casa, aveva detto alla figlia di non sentirsi troppo bene. Perciò quando Francesco risalì sul “34 rosso” del ritorno riuscì con difficoltà a raggiungere l’ultimo posto d’angolo. Quando il bus ripartì, chiuse gli occhi e durante decine di corse da un capolinea all’altro, incredibilmente fino alle nove di sera, nessuno si preoccupò di quell’anziano addormentato alla stessa maniera dei soliti pensionati senza affetti familiari. Finì così che la sua fine, sopraggiunta tante ore prima, l’accertò solo il medico di turno al pronto soccorso di via Roma.

Un caso che, per fortuna, ora non potrebbe più ripetersi. Come ci hanno assicurato al chiosco Amat di Piazza Camporeale. Perché gli autisti si accorgerebbero sicuramente di un passeggero addormentato quando vanno a controllare, a fine corsa, la macchinetta obliteratrice che è proprio in fondo al bus. E per i presunti ubriachi c’è l’ordine di chiamare l’ambulanza. Dunque, qualche altro buon incentivo a lasciare tranquillamente e utilmente l’auto sotto casa. Con in più l’eventuale possibilità di svegliare un vecchietto forse troppo profondamente assopito accanto al sacchetto della spesa. Si capisce, con la delicatezza del caso, e mettendo in conto le sue possibili male parole. Magari toccandogli una spalla per chiedergli solo, e sommessamente: “Come va?”.

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