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Settembre 1943: i soldati siciliani prigionieri di Hitler: la storia di Lillo e Salvatore

8 settembre '43. La storia degli ufficiali Lillo e Salvatore, di stanza in Grecia, che dopo l'armistizio sono diventati prigionieri dei tedeschi. Nessun ritorno a casa per loro

  • 8 settembre 2017

Una fotografia autentica dei Militari Italiani Internati

8 settembre 1943. La Sicilia, dopo lo sbarco sulle sue coste, è stata invasa dagli Angloamericani: in un certo senso la guerra sta finendo per i siciliani.

Rimangono sempre condizioni di vita disumane dovute al periodo bellico, i bombardamenti sono cessati, però la fame è sempre presente. Dopo l’armistizio con la resa dell’Italia si aspetta il rimpatrio dei nostri combattenti, il ritorno dei figli a casa.

L'otto settembre del 1943, Lillo è a Creta e come ogni sera è a cena con l’alleato tedesco. In sottofondo c’è la radio che diffonde le notizie prima in italiano e poi in tedesco. Quel giorno sentono la notizia dell’armistizio. La prima reazione è di non fare niente, mangiare velocemente e raggiungere gli alloggi per andare a prendere notizie e vedere se ci sono ordini. Non ce ne sono. Quella notte si dorme poco e niente. Si sta in attesa, senza sapere cosa fare.

L’indomani, Lillo sale per la prima volta della sua vita su una moto per attraversare l’isola verso il comando per capire cosa deve fare. Non trova nessuno. Ritorna subito dai suoi uomini, che l’aspettano con ansia. I tedeschi sono diventati nemici.
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Alcuni greci propongono a Lillo e agli altri ufficiali di essere evacuati verso l’Italia. Però non può pensare di abbandonare i suoi ragazzi. Si imbarca insieme a loro per il Pireo e da lì salgono sul treno con la promessa di essere ad Alessandria il giorno dopo.

Il viaggio nei vagoni per bestiame è molto difficile e soprattutto in condizioni disumane.

L’indomani guardando dai finestrini del vagone si capisce che qualcosa non va. Non sono sulla strada per l’Italia. I sospetti di essere stati ingannati sono confermati. Stanno andando verso Vienna. Erano prigionieri e non lo sapevano.

Salvatore è a Rodi, la situazione è drammatica: i tedeschi sono una minaccia e in alcune parti dell’isola hanno anche sparato su chi era amico il giorno precedente. Lui è in un caposaldo nel Sud dell’Isola e con i suoi compagni si aspetta da un momento all’altro di vedere spuntare i soldati tedeschi con i fucili puntati.

Già dall’8 settembre hanno ordini di "tenere gli occhi aperti per i tedeschi" senza maggiori informazioni, ma si capisce che la situazione sta diventando complicata.

L’11 settembre, dopo tre giorni di paura estrema, arrivano degli ordini che non hanno più senso: "arrendersi se vengono i tedeschi", "non arrendersi, resistere", "non fare ostilità con i tedeschi". Tutti ordini falsi.

Nei giorni successivi si lascia il caposaldo verso un campo più grande dove i nostri soldati saranno successivamente dichiarati Internati Militari Italiani (I.M.I., in tedesco Italienische Militär-Internierte), cioè in una posizione di scelta tra prendere le armi per i tedeschi o essere trasferiti in campi di detenzione.

Salvatore non si sottomette e vede costruire attorno a lui un campo di prigionia realizzato con le loro stesse mani sotto gli ordini tedeschi. Un giorno si costruisce la recinzione e l’indomani il divieto di uscire.

Stanno diventando prigionieri a tutti gli effetti con tutte le conseguenze che ci possiamo immaginare. In seguito viene trasferito in Germania in un campo di prigionia dove passerà gli anni successivi prima di tornare nel 1945 a casa.

Per decine di anni, questi veterani che oggi sono o erano i nostri genitori e nonni non sono riusciti a raccontare quello che hanno vissuto, quello che hanno dovuto sopportare. Oggi ritroviamo negli scritti di Salvatore la sofferenza che tutta una generazione ha subito.

Alcuni, come Lillo, raccontano con difficoltà e lacrime per ricordare i 700.000 I.M.I. che non sono scesi a patto con la Germania nazista e per ricordare, a noi che abbiamo la fortuna di vivere in un mondo più sereno, che dobbiamo custodire e curare ogni giorno la pace come il gioiello più prezioso che abbiamo.
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