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Da qui si entrava alla sinagoga: adesso è un vicoletto nel quartiere ebraico di Palermo

Osservando la struttura architettonica si nota che quanto oggi visibile è solo una porzione dell'arco originario e che l'altra metà è inglobata all'interno di un magazzino

  • 22 gennaio 2020

Cortile del Notaro in via Giardinaccio a Palermo (foto Alessia Rotolo)

I primi due documenti in cui vengono citati specificatamente gli ebrei di Palermo risalgono al 598. Il quartiere ebraico di Palermo era appena fuori le mura della città, ed era attraversato dal fiume Kemonia. Tra le vie della Meschita di Palermo c'è via del Giardinaccio, che diventa la via dei "siggiari" (ne abbiamo scritto qui).

In questa via c'è l'arco del Notaro, una struttura di pietra in tufo perfettamente conservata di Palermo. Questa "emergenza architettonica potrebbe essere parte di un antico portico arabo. Esaminandolo nel suo complesso e considerando che tale struttura risalirebbe al periodo arabo, si può ragionevolmente ipotizzare che l'arco del Notaro possa essere stato in seguito utilizzato come una delle porte d'accesso al complesso sinagogale.

Osservando attentamente la struttura architettonica si nota che quanto oggi visibile è solo una porzione dell'arco originario e che l'altra metà è inglobata all'interno di un magazzino non accessibile ai visitatori.
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La sinagoga di Palermo sorgeva dove adesso c'è la chiesa di San Nicolò da Tolentino e L'archivio di Stato di Damiani Almeida, che per progettarlo si ispirò appunto alle costruzioni delle sinagoghe. Quando con l'editto dell'Alhambra nel 1492 i spagnoli allontanano dalla città gli ebrei. Intorno al 1500 sarà la congregazione dei Notari ad acquistare tutte le proprietà che furono degli ebrei.

Le congregazioni erano delle associaizoni di persone che svolgevano la stessa professione, una sorta di ordine professionale che si appoggiava ad un oratorio e che avevano delle finalità benefiche nei confronti delle persone che abitano quel quartiere, della comunità.

Una testimonianza della grandezza della sinagoga – quella che oggi noi conosciamo come la Meschita di Palermo – ce la fornì il Rabbì Obadia di Bertinoro, in una lettera scritta appena quattro anni prima che entrasse in vigore l’Editto di Granada (o dell'Alhambra):

«La sinagoga a Palermo – scriveva Ovadia di Bertinoro in alcuni documenti riportati da Italia Giudaica – è senza paragone nel paese e tra i popoli, e viene lodata da tutti. Nel cortile crescono le viti su pilastri di pietra. Non hanno pari: ho misurato una vite che aveva uno spessore di cinque palmi. Di là una scala porta alla corte di fronte alla sinagoga, circondato da tre lati da un portico, fornito di sedie per quelli che non vogliono entrare alla sinagoga per un motivo o l’altro.

V'è un pozzo, distinto e bello. Sul quarto lato v’è il portale della sinagoga. L’oratorio è quadrato, quaranta su quaranta braccia. In oriente v'è un santuario. Una struttura bella di pietra come una cappella, perché non vogliono mettere i rotoli della Legge in un Aron […] La comunità ha assunto cinque hazzanim. Recitano il sabato e le feste con voci e melodie dolci.

Non ho visto cose simili tra gli ebrei da nessuna parte. I giorni feriali pochi frequentano la sinagoga, un ragazzo può contarli. Vi sono molti vani intorno alla sinagoga, come per esempio l’ospizio con letto per gli ammalati ed i vagabondi forastieri da parti lontane; il miqweh; la grande e bella sala dei funzionari; dove amministrano giustizia e deliberano su affari pubbliche…».
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