STORIE
Dal campo di calcio alle corsie d'ospedale: il medico siciliano con un pezzo di cuore in Africa
Sembra una storia da film quella di Luciano Ricifari. Un uomo di scienza che cela un animo dall'umanità profonda e attenta e un forte senso di amore per la vita
Luciano Ricifari
Dagli scarpini da calciatore alle corsie d'ospedale.
Sembra una storia da film quella di Luciano Ricifari. Un film di quelli incalzanti dove ogni scena è avvincente al punto di starci dentro, perché questa storia genera emozioni che ti attraversano.
Era bambino Luciano, quando giornalmente sua madre lo accompagnava a scuola e lui - incrociando il manifesto di una campagna di sensibilizzazione in aiuto dell'Africa, con l’immagine di un bambino denutrito e un'enorme scritta "Why?" -, si sentiva come segnato interiormente da quella domanda senza risposta.
Così portava con sé quell interrogativo, certo che avrebbe contribuito a rispondere a quel perché.
Con gli anni era diventato una giovane promessa del calcio.
Giovane, brillante e sportivo di quei ragazzi che tra la musica di Vasco gli amici e le belle ragazze, avrebbe potuto prendere una via diversa ma lui fa una scelta.
Prende il timone della propria vita e vira verso la strada che lo avrebbe poi fatto diventare il dottor Luciano Ricifari, dirigente medico infettivologo specializzato in malattie tropicali, esperto in medicina preventiva ed educazione alla salute, a Catania.
La voce razionale dell'uomo di scienza con cui ho parlato per fissare l’intervista, cela un animo dall’umanità profonda come si può capire leggendo le sue storie e i suoi racconti. Una persona con un'anima particolarmente attenta ed un forte senso di amore per la vita e per ciascun paziente.
Sono le 17:00 quando inizio ad intervistarlo. Mi risuona dentro la frase "La vita è l'insieme delle esperienze che ci attraversano". Iniziamo a parlare del suo ultimo lavoro e dell’urgenza del raccontare quel quarto di secolo di storie di vita di uomini e di donne incontrate e vissute durante il suo percorso professionale, vicino a quelli che molti chiamerebbero gli ultimi e poi la sua Africa.
Dai malati di AIDS agli inizi della sua professione proprio negli anni in cui non c'erano protocolli per affrontare la malattia, a chi l’amore lo vende per vivere, agli interrotti dalle vite spezzate dal destino o da scelte che hanno fatto da crocevia.
Racconti di vita e corsia, cartoline scritte e collezionate di esistenze ai margini, dove nessuno posa gli occhi perché il mondo corre nella direzione opposta, esattamente come accade con l’Africa. Gli chiedo perché scrivere storie di lato e lui mi dice «Per dovere etico di raccontare le storie accadute e per dare il messaggio che l’amore è più forte di tutto».
Cosí torniamo indietro a quando aveva quasi 26 anni ed iniziò in infettivologia. Erano gli anni della lotta all'Aids. In corsia c’erano pazienti, ragazzi e ragazze della sua stessa età.
A quei tempi, mi spiega, era uno specializzando e sebbene non avesse in quel momento responsabilità specificatamente terapeutiche- parlando ovviamente di terapia farmacologica-l'unica cosa che gli stava a cuore, mi dice, era vivere con loro, avere questo rapporto che andava assolutamente oltre, fatto di silenzi, di accoglienza, di sigarette di nascosto e di confronti sulla vita.
Era un’esplosione di perché. «Nel mio lavoro non mi sono mai risparmiato-dice- ci ho messo sempre la faccia e la mia vita l’ho sempre vissuta con passione».
Dalle corsie d’ospedale ai quartieri dell’estrema periferia della città, alle carceri, all'Africa. Sono passati 25 anni e da circa tre anni, dopo avere metabolizzato il percorso fatto, ha deciso di testimoniare attraverso i libri le storie di vita incrociate "mai per caso".
«Noi infettivologi -mi spiega - in genere abbiamo a che fare con le cosiddette periferie esistenziali e viviamo di ospedale, di sudore, di lacrime, di sangue e morti». Racconta gli ultimi, i poveri, le prostitute, i travestiti, gli ubriachi perché sente come se da loro avesse ricevuto una specie di battesimo.
«In quegli anni dell'inizio, noi andavamo a mangiare da questi ragazzi affetti dall’Aids. Era impensabile 30 anni fa quando erano emarginati per la malattia, spesso in condizioni di estremo disagio perché rifiutati dalle famiglie e dalla società».
Cosí restavano a mangiare con loro, per fargli capire che potevano vivere tranquillamente e dividere il cibo, perché non c'era nessun problema di trasmissione e per farli sentire accolti, accettati, amati. E fu da quei momenti che per molti di quei medici di quegli anni straordinari, la vita si trasformò.
Gli chiedo perché l'Africa e mi risponde senza pensarci due volte.
«L'ho scritto nel primo libro ero un ragazzino piccolo, a Catania in corso Italia c'erano questi cartelloni con quei bambini con gli occhi grandi, denutriti ed una grande scritta “why” -racconta -. Ogni volta che andavo a scuola accompagnato da mia madre, ero ancora piccolo per il motorino, provavo un’emozione fortissima dentro me, pur crescendo rimase forte al tempo stesso meravigliosa e difficile da spiegare, avevo come la certezza che nella mia vita avrei fatto qualcosa per queste persone. Crescendo io ero dedito a tutt'altro, ero un ottimo giocatore di pallone, sono stato quasi sul punto di fare una carriera da calciatore, i miei interessi erano altri ma è stato più forte quel sentire e quel volere dare una risposta a quel “why? ”".
Fu una mattina che mandò un curriculum e da lì a poco finí in Africa. La prima volta fu in Zambia.
Lì fu un'esperienza difficile e per lui che chiamavano "il medico che teneva in braccio i bambini", vederne morire giorno per giorno a decine, tra la malaria devastante e l'Aids che non dava tregua fu straziante. «In quegli anni non c'era la terapia, moltissimi erano denutriti. Un lazzaretto spaventoso», dice con la voce trafelata.
In quel posto erano solo due medici e per lui, nonostante gli studi condotti a Liverpool in malattie tropicali e nonostante tutte le competenze del caso, era davvero una battaglia ad armi spuntate.
Non riuscivano assolutamente a venirne a capo, mancavano le risorse per acquistare anche le sole zanzariere per attuare un percorso di prevenzione, sembrava un inferno e quando era sul punto di mollare quasi arreso all’idea, dopo avere contattato chiunque e smosso mari e monti, arrivò la telefonata con cui gli comunicavano che le zanzariere c’erano e sarebbero arrivate a centinaia nel giro di una decina di giorni.
Un misto di gioia lì pervase, lui era sì un medico ma anche un giovane uomo poco più che trentenne.
Così insieme ad Aina, un'infermiera meravigliosa e sua dolcissima amica, e con altre persone di una semplicità inaudita andavano nei villaggi e traducevano nei vari dialetti quanto spiegava per l'uso delle zanzariere e non solo, c’erano decine di madri con i loro bimbi.
E poi con voce ferma e dolce dice: «L’Africa è madre, parlo di quell’Africa subsahariana che ho vissuto e quando scesi dall’aereo la prima volta mi sentii accolto da subito in un ventre materno, porterò sempre con me, le partite a calcio con i bambini a piedi nudi, la gioia e il dolore, i tramonti, i miei momenti di riflessione e solitudine sotto quello che per me è stato il mio grande albero “Mti” ad osservare lo Zambesi e le stelle in momenti di solitudine infinita».
E se con il primo viaggio in Zambia nel 1997 si è aperto il cerchio del percorso africano, in Tanzania nel 2018 si è chiuso quando ha portato le terapie. «Io quella malattia volevo vederla sconfitta -dice - dobbiamo imparare a fare silenzio interiore e lasciarci interrogare, per poi dare ciascuno di noi il nostro contributo.
Adesso coltivo il progetto di realizzare "la casa della luce": un luogo qui in Sicilia dove accompagnare i terminali nella fase conclusiva del loro percorso di vita, a questo saranno devoluti parte dei proventi dei libri».
Il suo tour siciliano continuerà nei prossimi giorni e dopo Marsala il 12 settembre sarà ad Aci Castello ed il 17 settembre a Caltanissetta.
L’intervista termina con un grande senso di armonia e di amore verso quell’umanità capace ancora di "danzare la vita"
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