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Dal Muos al prezzo della benzina: cosa rischia la Sicilia con la guerra Iran-Israele

Le ragioni del conflitto in Medio Oriente e quali conseguenze per l'Isola e per l'Italia: prof di storia contemporanea dell'università di Palermo spiega tutto

Giovanni Castronovo
Laureato in Lettere moderne
  • 23 giugno 2025

Il Muos di Niscemi, foto di Salvatore Cavalli

La guerra tra Iran e Israele tiene il mondo col fiato sospeso. Quali saranno le conseguenze dopo l'entrata in azione degli Usa?

In questi giorni in tanti si chiedono se la Sicilia possa essere utilizzata come longa manus degli Stati Uniti, per via della sua collocazione nel cuore del Mediterraneo e per la presenza di infrastrutture militari di importanza vitale nelle operazioni a stelle e strisce nel mare nostrum.

Sigonella, il Muos, che ruolo potrebbero avere? Dirlo adesso è difficile secondo Tommaso Baris, docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Palermo. Al momento, di certo, il rischio maggiore per l'Isola e per il resto dell'Italia è l'impennata del prezzo della benzina.

Ma andiamo con ordine. Cosa c'è dietro al conflitto tra Iran e Israele? «Dal punto di vista di Israele vi sono due grandi questioni aperte, due diversi ordini di problemi», spiega il docente.

Ovvero? «Il primo è rappresentato dalla questione palestinese, mentre il secondo è derivante dalla costituzione, in seguito alla rivoluzione iraniana del '79, di un vasto fronte sciita guidato dall’Iran, comprendente tra gli altri l’ormai ex regime di Assad in Siria ed Hezbollah nel sud del Libano, conosciuto con il nome di “Asse della Resistenza”».

Di che si tratta? «Di una vasta penetrazione iraniana nei paesi vicini a maggioranza sciita, con l’obiettivo di combattere Israele, o comunque di ridimensionare significativamente il peso politico nell'area».

La risposta dello Stato israeliano? «Ha cercato di controbilanciare il sistema di alleanze tessuto dall’Iran attraverso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche e militari con i paesi arabi, in particolar modo con le monarchie del Golfo, premessa a future intese politiche e militari».

E spiega: «Questo tentativo, costituito dalla sottoscrizione degli accordi di Abramo con regimi conservatori e intolleranti dal punto di vista religioso quanto la Repubblica Islamica dell’Iran, è stato arrestato dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e dalla lunghissima e violentissima azione israeliana a Gaza».

La risposta israeliana è nota a tutti: «Il fallimento dei servizi di sicurezza israeliani ha spinto Netanyahu ad optare per una soluzione definitiva della questione palestinese, con una dimensione di pulizia etnica della Striscia quasi genocidaria mentre i coloni e soldati israeliani agiscono indisturbati a Gaza».

Ma non solo: «Parallelamente, si sta conducendo una guerra permanente contro i loro principali nemici, allo scopo di riacquistare credibilità sul piano politico e militare sulla scena internazionale. Non a caso Israele ha prima colpito Hezbollah in Libano, poi ha favorito il crollo di Assad e adesso sta attaccando l'Iran».

La Sicilia, in particolare, ha qualcosa da temere? «Negli ultimi decenni il posizionamento della Sicilia nella logica statunitense è certamente mutato. Durante la Guerra Fredda l'Isola (e lo Stato italiano più in generale) rappresentava il limes tra l’alleanza atlantica e il mondo comunista. La Sicilia ha svolto il ruolo di avamposto militare in un’epoca in cui il “nemico” si trovava nell’Europa Orientale».

Adesso è cambiato tutto. «Ad oggi le strutture militari che si trovano sul nostro suolo, su tutti il sistema Muos con sede a Niscemi, sono rivolte in un’altra direzione. Già a partire dalla prima guerra del Golfo le basi non solo siciliane, ma anche quelle impiantate nella penisola arabica in funzione anti-irachena prima ed oggi anti-iraniana, sono proiettate verso il Medio Oriente».

Secondo Tommaso Baris, per capire che ruolo potrebbe avere adesso la Sicilia bisognerebbe prima comprendere in che direzione si evolverà il conflitto.

«Ad oggi - spiega - non sappiamo se gli Usa si limiteranno ad attacchi mirati e circoscritti, o se tenteranno di ridurre la Repubblica Islamica all’inoffensività servendosi persino di un’invasione di terra. D’altro canto, scopriremo soltanto nelle prossime ore quanto sarà dura l’inevitabile rappresaglia iraniana».

E ancora: «Un dato interessante è che, nel caso l’isola fungesse anche solo da base logistica, la funzione difensiva da sempre attribuita alle infrastrutture militari presenti nel nostro territorio, che ne giustificò la realizzazione sul piano politico e ideologico, verrebbe meno, poiché è evidente come ad oggi l’Iran non sia in grado di colpire direttamente né l’Italia né men che meno gli Stati Uniti».

Probabile che vi siano conseguenze politiche ed economiche. «L’aumento delle tensioni nell’area, che non riguarda esclusivamente Israele e Iran, rischiano di mettere in pericolo le rotte di approvvigionamento, in particolare del greggio e del petrolio», è l'allarme di Tommaso Baris.

E potrebbero portare, spiega, «a un’impennata dei prezzi con terribili ricadute sociali per milioni di cittadini che hanno già visto ridursi significativamente il proprio potere d’acquisto negli ultimi anni. L’Italia, in particolare, vista la forte dipendenza estera per le risorse energetiche, avrà delle ricadute complessive come sistema paese».

Il rischio è legato alla possibilità che Teheran decida di bloccare il passaggio dallo Stretto di Hormuz, da cui passa il 20% del greggio mondiale.

«Lo stesso Piano Mattei, individuato dal governo Meloni come un progetto di imprescindibile importanza strategica per estendere l’influenza italiana nel continente africano e per smarcarsi dalla dipendenza dal gas russo - conclude il prof -, non è di certo esente da scossoni o rallentamenti nel caso di nuovi conflitti o cambi di regime».
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