Dal Senegal porta l'Africa a Palermo: Doudou e la sua "resistenza" per un'altra Vucciria
La storia del titolare del ristorante Ciwara in piazza Caracciolo, il suo locale (in regola) prova a essere un ponte fra tradizione siciliana e africana

Doudou Diouf e Romina Vivona del ristorante "Ciwara"
C’è un punto preciso della Vucciria dove non si frigge il pesce, non si stappano bottiglie di birra a prezzi stracciati e non si urlano offerte. Si ascolta musica. Si improvvisano jam session. Si mangiano piatti tradizionali africani come il domoda yapp, lo yassa, il mafe o il thiep bou djen. Si parla wolof, francese, italiano, inglese. E si intrecciano storie.
È il ristorante Ciwara, in piazza Caracciolo: un pezzo del Sahel occidentale incastonato tra i vicoli più controversi del centro storico di Palermo che, grazie al suo ostinato fondatore Doudou Diouf, da quasi sette anni racconta un’altra Vucciria possibile.
Danzatore e musicista senegalese, Doudou vive in città da 15 anni. È arrivato in Italia nel 2009, con un regolare visto, per realizzare il sogno di vivere di musica e danza. Dopo un passaggio a Catania, seguendo i consigli della cantautrice siciliana Matilde Politi, ha scelto Palermo come casa dove piantare le sue nuove radici.
Qui, tra mille sacrifici e difficoltà burocratiche, ha costruito Ciwara, un luogo prezioso che è molto più di un semplice ristorante: è un punto di incontro, un laboratorio interculturale, un progetto sociale; un’idea di Africa che abita l’Europa non come eccezione, ma come possibilità.
Ciwara è cucina, musica, lavoro, cultura ma è anche un presidio sociale, che impiega migranti, offre opportunità, costruisce comunità. Si mangia attorno a tavoli di legno, si ascoltano strumenti tradizionali, si partecipa a concerti.
«Volevamo che il ristorante fosse un ponte, un luogo di scambio dove tradizione africana e siciliana si mescolano, creando un’esperienza che va oltre il cibo. Un posto che raccontasse le nostre radici senza folklore», dice Diouf.
Nonostante gli sforzi e la passione, però, il locale è finito sotto osservazione costante. «Dal 2021 Ciwara è oggetto di controlli sistemici», racconta Romina Vivona, diversity manager di questa realtà. «Ricordo ancora quando, dopo che Doudou aveva avuto un infarto da poco, arrivarono per fare verbali su come erano vestiti i ragazzi in sala, o per delle cartacce a terra all’esterno del locale».
Anche la musica - cuore pulsante del progetto - è stata più volte oggetto di contestazione. Ma tutto, spiegano, è sempre stato fatto in regola: SCIA per la musica da intrattenimento, misurazioni fonometriche, pagamento del suolo pubblico, autorizzazioni aggiornate secondo il nuovo regolamento sulla movida.
«Da marzo a maggio 2025 - spiega Vivona - ogni controllo ha confermato che fosse tutto in ordine».
Poi, il 6 giugno scorso, un blitz improvviso: sedici agenti della polizia municipale, con bodycam accese, sequestrano il locale durante un evento. L’accusa? «Discoteca non autorizzata».
«Come sempre abbiamo mostrato tutti i documenti, ma ci hanno detto che per loro non valevano nulla. Hanno messo addirittura i sigilli al ristorante, sostenendo che avremmo potuto reiterare l’illecito».
Ciwara resta quindi chiuso per venti giorni, il tempo necessario per ricorrere al Tribunale del Riesame, che annulla il sequestro. In attesa di leggere le motivazioni che arriveranno tra un mese circa, l’esigenza però di raccontare è tanta. Per questo oggi è stato organizzato un incontro pubblico: con microfoni aperti e parole che cercavano riscatto.
Al fianco di Doudou Diouf e Romina Vivona, c’erano l’avvocato Girolamo Alessandro Crociata - che li ha seguiti in questa ennesima battaglia legale - e tanti amici, clienti, colleghi. Persone che in questi venti giorni hanno continuato a passare davanti a Ciwara trovandolo ingiustamente chiuso.
Venti lunghi giorni di silenzio, porte sbarrate, accuse rivelatesi infondate. «Ogni volta che si parla di Vucciria, si punta il dito su di noi. Come se fossimo gli unici. Come se fossimo noi il problema», ha detto Diouf.
È vero, il tribunale ha annullato il decreto di sequestro. Il danno però resta. Economico, certo. Ma anche morale, umano. «La ferita più grande è l’ombra del sospetto. La sensazione di essere colpevoli per pregiudizio. Il pensiero che se sei "negro" e hai un locale alla Vucciria, allora qualcosa di losco ci dev’essere per forza» racconta la diversity manager.
Eppure Ciwara non è mai stato un luogo qualsiasi in quella piazza piena di problemi mai veramente affrontati. Il suo nome viene dalla lingua bambara del Mali. Ci significa luogo, Wara invece forza: Ciwara è quindi il luogo della forza, quella che serve per resistere anche quando tutto sembra remare contro. Ma è anche una figura mitologica, un essere ermafrodita con il corpo di un’antilope, un leone e un formichiere: una creatura sacra che, secondo la tradizione africana, ha insegnato agli uomini a coltivare la terra e che viene celebrata ogni anno con una danza per onorare la fatica e chiedere fertilità, abbondanza e futuro.
Proprio di futuro si è parlato in piazza Caracciolo. Non solo quello del ristorante, ma anche quello dell’interno quartiere. «Non possiamo accettare che la Vucciria venga ridotta a una narrazione tossica, dove tutto è degrado e chi prova a creare qualcosa di buono finisce per essere il capro espiatorio», afferma Romina Vivona.
Già, perché non si tratta solo di autorizzazioni, di regolamenti o di fonometriche. «Il vero problema è lo sguardo», dice. «Si continua a leggere la Vucciria con la lente del sospetto, e si colpisce chi cerca di lavorare nella legalità. Così iniziamo a credere sia anche il razzismo a dettare questi controlli. Parlavamo di Palermo città accogliente, ma non è vero. Non se poi accade questo».
E allora la domanda è inevitabile: che idea abbiamo della Vucciria?
«Se vogliamo affrontarne i problemi - aggiunge Vivona - dobbiamo farlo con un progetto culturale e sociale vero. Non con la repressione, che in questa città sembra l’unico modo per risolvere le difficoltà. Servono strumenti, visione, politiche che accompagnino al cambiamento.
Dobbiamo decidere se vogliamo continuare a inseguire gli abusivi per strada, oppure costruire le condizioni per farli lavorare in regola. Perché finché resterà tutto com’è, a pagare saranno sempre gli stessi: quelli che cercano di fare le cose per bene».
Si legge tanta amarezza negli occhi stanchi di chi si sente un bersaglio, ma non rassegnazione.
«Potremmo anche spostare il ristorante in un’altra zona di Palermo, ma non ce ne andremo solo per delle pressioni. Lo faremo solo quando - e se - decideremo noi. Adesso chiediamo soltanto di restare, lavorando in pace, nella legalità e con regole chiare. Senza che si punti sempre e solo il dito su di noi».
E allora Ciwara al momento resta. Resta lì e resiste, tra le pietre della Vucciria, con i suoi sgabelli di legno, i tamburi appesi, i piatti dal profumo di zenzero e arachidi. Resta con la sua ostinazione gentile, fatta di musica, lavoro e sogni.
Non come eccezione da sopportare, ma come opportunità da proteggere. Perché Ciwara non è il problema della Vucciria, ma una delle poche risposte possibili.
È il ristorante Ciwara, in piazza Caracciolo: un pezzo del Sahel occidentale incastonato tra i vicoli più controversi del centro storico di Palermo che, grazie al suo ostinato fondatore Doudou Diouf, da quasi sette anni racconta un’altra Vucciria possibile.
Danzatore e musicista senegalese, Doudou vive in città da 15 anni. È arrivato in Italia nel 2009, con un regolare visto, per realizzare il sogno di vivere di musica e danza. Dopo un passaggio a Catania, seguendo i consigli della cantautrice siciliana Matilde Politi, ha scelto Palermo come casa dove piantare le sue nuove radici.
Qui, tra mille sacrifici e difficoltà burocratiche, ha costruito Ciwara, un luogo prezioso che è molto più di un semplice ristorante: è un punto di incontro, un laboratorio interculturale, un progetto sociale; un’idea di Africa che abita l’Europa non come eccezione, ma come possibilità.
Ciwara è cucina, musica, lavoro, cultura ma è anche un presidio sociale, che impiega migranti, offre opportunità, costruisce comunità. Si mangia attorno a tavoli di legno, si ascoltano strumenti tradizionali, si partecipa a concerti.
«Volevamo che il ristorante fosse un ponte, un luogo di scambio dove tradizione africana e siciliana si mescolano, creando un’esperienza che va oltre il cibo. Un posto che raccontasse le nostre radici senza folklore», dice Diouf.
Nonostante gli sforzi e la passione, però, il locale è finito sotto osservazione costante. «Dal 2021 Ciwara è oggetto di controlli sistemici», racconta Romina Vivona, diversity manager di questa realtà. «Ricordo ancora quando, dopo che Doudou aveva avuto un infarto da poco, arrivarono per fare verbali su come erano vestiti i ragazzi in sala, o per delle cartacce a terra all’esterno del locale».
Anche la musica - cuore pulsante del progetto - è stata più volte oggetto di contestazione. Ma tutto, spiegano, è sempre stato fatto in regola: SCIA per la musica da intrattenimento, misurazioni fonometriche, pagamento del suolo pubblico, autorizzazioni aggiornate secondo il nuovo regolamento sulla movida.
«Da marzo a maggio 2025 - spiega Vivona - ogni controllo ha confermato che fosse tutto in ordine».
Poi, il 6 giugno scorso, un blitz improvviso: sedici agenti della polizia municipale, con bodycam accese, sequestrano il locale durante un evento. L’accusa? «Discoteca non autorizzata».
«Come sempre abbiamo mostrato tutti i documenti, ma ci hanno detto che per loro non valevano nulla. Hanno messo addirittura i sigilli al ristorante, sostenendo che avremmo potuto reiterare l’illecito».
Ciwara resta quindi chiuso per venti giorni, il tempo necessario per ricorrere al Tribunale del Riesame, che annulla il sequestro. In attesa di leggere le motivazioni che arriveranno tra un mese circa, l’esigenza però di raccontare è tanta. Per questo oggi è stato organizzato un incontro pubblico: con microfoni aperti e parole che cercavano riscatto.
Al fianco di Doudou Diouf e Romina Vivona, c’erano l’avvocato Girolamo Alessandro Crociata - che li ha seguiti in questa ennesima battaglia legale - e tanti amici, clienti, colleghi. Persone che in questi venti giorni hanno continuato a passare davanti a Ciwara trovandolo ingiustamente chiuso.
Venti lunghi giorni di silenzio, porte sbarrate, accuse rivelatesi infondate. «Ogni volta che si parla di Vucciria, si punta il dito su di noi. Come se fossimo gli unici. Come se fossimo noi il problema», ha detto Diouf.
È vero, il tribunale ha annullato il decreto di sequestro. Il danno però resta. Economico, certo. Ma anche morale, umano. «La ferita più grande è l’ombra del sospetto. La sensazione di essere colpevoli per pregiudizio. Il pensiero che se sei "negro" e hai un locale alla Vucciria, allora qualcosa di losco ci dev’essere per forza» racconta la diversity manager.
Eppure Ciwara non è mai stato un luogo qualsiasi in quella piazza piena di problemi mai veramente affrontati. Il suo nome viene dalla lingua bambara del Mali. Ci significa luogo, Wara invece forza: Ciwara è quindi il luogo della forza, quella che serve per resistere anche quando tutto sembra remare contro. Ma è anche una figura mitologica, un essere ermafrodita con il corpo di un’antilope, un leone e un formichiere: una creatura sacra che, secondo la tradizione africana, ha insegnato agli uomini a coltivare la terra e che viene celebrata ogni anno con una danza per onorare la fatica e chiedere fertilità, abbondanza e futuro.
Proprio di futuro si è parlato in piazza Caracciolo. Non solo quello del ristorante, ma anche quello dell’interno quartiere. «Non possiamo accettare che la Vucciria venga ridotta a una narrazione tossica, dove tutto è degrado e chi prova a creare qualcosa di buono finisce per essere il capro espiatorio», afferma Romina Vivona.
Già, perché non si tratta solo di autorizzazioni, di regolamenti o di fonometriche. «Il vero problema è lo sguardo», dice. «Si continua a leggere la Vucciria con la lente del sospetto, e si colpisce chi cerca di lavorare nella legalità. Così iniziamo a credere sia anche il razzismo a dettare questi controlli. Parlavamo di Palermo città accogliente, ma non è vero. Non se poi accade questo».
E allora la domanda è inevitabile: che idea abbiamo della Vucciria?
«Se vogliamo affrontarne i problemi - aggiunge Vivona - dobbiamo farlo con un progetto culturale e sociale vero. Non con la repressione, che in questa città sembra l’unico modo per risolvere le difficoltà. Servono strumenti, visione, politiche che accompagnino al cambiamento.
Dobbiamo decidere se vogliamo continuare a inseguire gli abusivi per strada, oppure costruire le condizioni per farli lavorare in regola. Perché finché resterà tutto com’è, a pagare saranno sempre gli stessi: quelli che cercano di fare le cose per bene».
Si legge tanta amarezza negli occhi stanchi di chi si sente un bersaglio, ma non rassegnazione.
«Potremmo anche spostare il ristorante in un’altra zona di Palermo, ma non ce ne andremo solo per delle pressioni. Lo faremo solo quando - e se - decideremo noi. Adesso chiediamo soltanto di restare, lavorando in pace, nella legalità e con regole chiare. Senza che si punti sempre e solo il dito su di noi».
E allora Ciwara al momento resta. Resta lì e resiste, tra le pietre della Vucciria, con i suoi sgabelli di legno, i tamburi appesi, i piatti dal profumo di zenzero e arachidi. Resta con la sua ostinazione gentile, fatta di musica, lavoro e sogni.
Non come eccezione da sopportare, ma come opportunità da proteggere. Perché Ciwara non è il problema della Vucciria, ma una delle poche risposte possibili.
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