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Di Marsala conosce ogni storia, curiosità e leggende: la professoressa La Grutta e i suoi racconti

Ha visto rinascere la sua Marsala dopo il bombardamento aereo del 1943. Innamorata della città, intrattiene (anche sui social) raccontando tutto ciò che sa di questi luoghi

Jana Cardinale
Giornalista
  • 4 agosto 2021

Una delle immagini "postate" dalla professoressa La Grutta

Esperta in storia e tradizioni locali, profonda conoscitrice delle parole, sempre pronta a dare un contributo per la migliore riuscita di un convegno che abbia al centro i racconti e le peculiarità del territorio, ma soprattutto, innamorata della sua città: Marsala.

Francesca La Grutta è un archivio di nozioni, aneddoti, ricette, e infinite curiosità che riguardano il luogo in cui è nata e vive, e che anche tramite i social promuove, condividendo con i suoi appassionati lettori, già alunni o ammirati conoscenti, le sue ‘perle’ di saggezza. Pagine ricche di immagini e sapere, pronte a soddisfare ogni più recondita domanda su proverbi, modi di dire e tipicità.

Ed è bello apprendere che “in Sicilia un uomo o una donna non sono appellati persone ma ‘cristiani’, e che la spiegazione ci viene fornita dal detto “Unni persi i scarpi ‘u Signuri” e da Carlo Levi, nel suo romanzo "Cristo si è fermato ad Eboli”.
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«Nel meridione d’Italia, e specialmente in Sicilia – scrive Francesca - quando appelliamo un essere umano con il termine “cristianu”, declinato al maschile ma anche al femminile, ci riferiamo ad una persona di cui non conosciamo neanche il nome e che consideriamo inferiore a noi.

Noi chiamiamo cristianu una persona di cui nulla sappiamo, un essere umano in senso generico, e i siciliani quando vogliono indicare un luogo in cui la civiltà non è arrivata o un luogo isolato, lontano dal mondo civile, dicono che quel luogo si trova “Dunni persi i scarpi ‘u Signuri”, per significare che in quel posto Cristo non c’è arrivato perché ha perduto le scarpe e scalzo non poteva giungerlo. Quindi un cristianu ca vivi dunni persi i scarpi ‘u Signuri, luogo collocato lontano dal mondo civile, non è un Cristiano, nel senso pieno del termine, non è un essere umano, o meglio, non è trattato come un essere umano».

La professoressa La Grutta è autrice di una lunga lettera alla sua Marsala, che ha visto rinascere dopo il bombardamento aereo del 1943, e per Marsala si è rivolta alla Madonna, con una breve, dolcissima, preghiera: “O Vergini Maria, pensa e pruteggi Tu, Marsala, amata mia, aiutala, Gesù”.

Francesca la sa lunga anche sul cibo e i nostri migliori sapori e in tema di leccornie dice: “Il gelato è considerato eredità della dominazione araba. I Saraceni, infatti, usavano bere nelle calde giornate estive una bevanda gelata con la neve trovata alle pendici di alte vette palermitane e preparata con zucchero di canna, latte o acqua, essenza di frutta, vaniglia e cannella.

La chiamavano "Sciarbat", che vuole dire sorbire, creata con le rare nevi dei nostri monti palermitani. E da "Sciarbart" derivò il sorbetto, che entrò a far parte dei menù estivi dell'aristocrazia palermitana ed i "monsù" consolidarono il proprio estro aggiungendo a quella bibita gelata il succo dei nostri agrumi, fiori e spezie odorose.

Il boom dei sorbetti, si ebbe con l'avvento del "gelato da passeggio" che arrivò intorno al 1700, quando Francesco Procopio dei Coltelli, cuoco siciliano, utilizzando un'invenzione del nonno Francesco, un pescatore che nei momenti di libertà si dedicava allo studio di una macchina per la produzione di gelato, sostituendo lo zucchero al miele e mischiando al ghiaccio un pò di sale, riuscì a preparare un composto che resisteva più a lungo al caldo”.

E cos’altro ancora racconta, nelle sue rubriche spontanee su facebook, corredate di immagini dai colori vivaci? Interessante il suo racconto sugli ‘imparaticci’, dei campionari di ricamo composti da rettangoli di stoffa lunghi e stretti, generalmente pari alla larghezza del telaio, il cui tessuto di base era il lino e i ricami erano eseguiti generalmente con un filo di seta.

Erano una sorta di campionario di punti e disegni che venivano realizzati dalle ricamatrici principianti e che venivano poi via via consultati dalle stesse e mostrate anche alle clienti. «In alcuni casi gli imparaticci venivano lavorati in ambo i sensi della stoffa tanto che gli alfabeti potevano apparire capovolti. I motivi erano disposti senza ordine, aggiunti a caso gli uni agli altri.

Questi imparaticci stretti e lunghi erano spesso avvolti intorno ad un manico o arrotolati dentro a un cestino da lavoro, affinché la ricamatrice – dice - potesse facilmente consultarli e trarne ispirazione per i suoi lavori. Nel tempo con gli imparaticci delle ricamatrici vennero realizzati cuscini e quadri.

Mia madre realizzò un "imparaticcio" quando praticò per la prima volta il ricamo su velo d'India e questo oggi è diventato un cuscino».

Tra i suoi pezzi forti ci sono i racconti sugli aromi, di cui privilegia il ‘re’ basilico.

«È una delle erbe aromatiche più amate e più usate nella cucina siciliana, letteralmente immancabile in tantissimi piatti. Il basilico è una pianta facile da coltivare tanto in piena terra quanto in vaso: ama la luce solare, ma non quella delle ore calde, ama il caldo, ma non le temperature torride.

Serve quindi un punto dell’orto (o del terrazzo) semi-ombreggiato, dove la pianta possa ricevere luce naturale diretta solamente nelle ore del primo mattino o del tardo pomeriggio; per avere una pianta piena di foglie occorre staccare i fiori appena crescono, semplicemente con la punta delle dita, altrimenti disseccherà.

Il basilico è stato da sempre associato alla sacralità: si dice infatti che sia nato ai piedi della croce di Cristo e che, successivamente trovato e raccolto dall’imperatrice Elena, sia stato da lei diffuso in tutto il mondo. Rende profumato ogni piatto estivo siciliano, infatti si mette nella salsa di pomodoro che si adopera per condire la pasta, si mette nel “matarocco” marsalese e nel “salamudeci” trapanese, sulla pizza come anche nel “pani cunzatu” o nella mollica bianca che si adopera nel ripieno dei peperoni o come condimento della pasta al ragù, si adopera nella melanzana alla parmigiana e può profumare deliziosamente un semplice piatto di spaghetti conditi semplicemente con olio extravergine».

Ferrata anche sulle locuzioni intraducibili, sfodera nei suoi post un “Bannera di cannavazzu, l’espressione che viene usata in modo dispregiativo e di solito rivolta a chi cambia spesso o facilmente idea sulle cose o sulle persone e a chi non sa mantenere una posizione ferma.

“Il proverbio recita: “Megghiu tintu canusciutu chi bonu a canusciri” – dice Francesca La Grutta - tuttavia il “volta bandiera”, cioè “a bannera di cannavazzu”, vuole cambiare, vuole fare nuove esperienze, “cambiare fa bella la vita” e “chi bacia una bocca ne dimentica un’altra”.

Il “Volta Bandiera” è subdolo, riesce quasi a farvi credere di essere vostro amico, di volervi bene, di starvi accanto, poi alla prima occasione fugge via da voi e percorre altre strade, forse solo altri sentieri, può darsi anche solo altri vicoli, senza sbocco!. Quando accade che le persone si comportano come “‘na bannera di cannavazzu” non resta che dire: “L’acqua mi vagna e u ventu m’asciuca”, cioè: io continuo ad essere me stesso e nessun cattivo tempo mi può arrecare danno”.

E per finire l’indagine negli archivi storici della professoressa riportano alla pasta fritta, che veniva realizzata con la pasta "accuddata" nel corso del pranzo. «Per pasta "accuddrata" deve intendersi quella che "calavano" in più perché rimanesse – dice - . Non era frequente che per pranzo si preparasse pasta al forno ed accadeva raramente ma quando si decideva di prepararla i condimenti erano veramente pochi; la "pasta fritta" invece si preparava più frequentemente e veniva realizzata con la pasta avanzata a pranzo ed era buona la sera o anche l'indomani, fredda.

Qualcuno la realizza ancora ma ci mette dentro un gran ben di Dio: la salsa, le melanzane fritte o le patate fritte, il tritato, il grattugiato, la salsiccia, le polpette, quando non aggiunge anche il prosciutto e la mozzarella. Se preparata così non é più pasta fritta ma una pseudo pasta al forno che non ha più il sapore di una volta e che viene preparata in padella solo per non usare il forno che, d'estate, per chi cucina, fa la differenza».

E a proposito d’estate, subito alla mente viene il ventaglio, oggetto elegante che serve alle signore per farsi vento e che in Sicilia è detto "muscaloru", di palma nana con il manico in legno che serviva alle massaie per tenere vivo il fuoco della fornacella o nel ferro a carbone e per allontanare mosche e altri insetti da sé e dai cibi.

Romantica, infine, la sua leggenda triste del gelso nero, nato da un amore infelice, il frutto estivo che conquista i palati e l'albero che si piantava accanto ai pozzi e alle "pile di pietra" per fornire ombra.

«Non esiste un albero più paziente e saggio del Gelso – dice - Plinio il vecchio lo definisce "sapientissima arborum", il più saggio degli alberi perché attende che siano scongiurate anche le gelate più tardive per emettere il fogliame. Il Gelso è l'ultima caducifoglia a vegetare, per i Greci era una pianta consacrata al dio Pan, ricca di simbologia, intelligenza e passione.

È sotto un albero di Gelso che si consumò il dramma d'amore di Tisbe e Piramo, raccontata come una leggenda da Ovidio nel libro quarto delle sue "Metamorfosi"».
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