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Era tra le donne più belle della Sicilia: la baronessa Grimaldi e il delitto della "camera rossa"

Teatro della tragedia fu la città di Catania. Nel 1777 Orazio Paternò Castello, figlio del marchese di San Giuliano, convolò a nozze con l’allora sedicenne Rosalia Petroso Grimaldi

Livio Grasso
Archeologo
  • 21 ottobre 2021

Palazzo San Giuliano a Catania

Sicuramente, una delle meraviglie architettoniche di Catania è lo storico Palazzo San Giuliano, ubicato nell’odierna piazza dell’Università. Costruito dall’illustre architetto Giovanni Battista Vaccarini nel XVIII secolo, allo stato attuale è sede degli uffici amministrativi dell’Università del capoluogo etneo.

Le fonti tramandano che l’edificio fu portato a compimento nel 1738 per la famiglia aristocratica dei Paternò, marchesi di San Giuliano. Sappiamo che nel 1777 Orazio Paternò Castello, figlio del marchese di San Giuliano, convolò a nozze con l’allora sedicenne Rosalia Petroso Grimaldi, baronessa di Pullicarini.

Di lei si diceva che fosse tra le donne più belle e attraenti di tutta la Sicilia. Non pochi, infatti, erano gli uomini che rimanevano profondamente incantati dalla sua grazia e avvenenza. Il marito, consapevole del gran numero di pretendenti che le ronzavano intorno, iniziò a dubitare di lei temendo che potesse spassarsela con uno o più amanti.
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Divorato da un’insana diffidenza, dunque, costrinse la consorte a vivere segregata in casa. Non passò molto che la gelosia si trasformasse in follia, sempre più convinto dell’infedeltà della giovane baronessa. Di lì a poco i litigi tra i due divennero sempre più accesi, malgrado Rosalia avesse dato sempre prova di essere una moglie adorabile e fedele.

Tuttavia, i sospetti di Orazio aumentarono giorno dopo giorno al punto tale da scoppiare in una vera e propria tragedia. Era il 15 Marzo 1784 quando, nel corso della notte, si udì un urlo di dolore proveniente dal palazzo.

La tradizione, infatti, riporta che Orazio, accecato dall’ira, assassinò la moglie sferrandole innumerevoli coltellate. Ci andò di mezzo pure la cameriera personale di Rosalia, venuta in soccorso della sua padrona e violentemente uccisa a suon di fendenti. L’unica che riuscì a trarsi in salvo fu la governante, la quale scappò via dal palazzo e si fiondò in piazza strillando.

La vicenda prosegue rivelando che fu proprio la governante a testimoniare il cruento uxoricidio. A partire da quel momento circolarono un gran numero di leggende su questo misfatto. Ad alimentare la fantasia popolare non fu altro che la presenza di due finestre murate collocate in alto a sinistra del palazzo, credendo che le due stanze fossero state “chiuse” dagli eredi dei coniugi per mettere a tacere le voci sul presunto tradimento della madre.

Esiste anche un’altra versione secondo cui la povera vittima sia stata murata viva dal marito e che, tuttora, il suo fantasma sia rinchiuso lì dentro.

Nonostante tutto, la verità è che Rosalia morì nella cosiddetta “camera rossa”, una delle stanze da letto della famiglia. Al di là dei balconi murati, invece, si nascondeva la volta del salone sottostante. In ogni caso ben presto l’efferato crimine giunse alle orecchie di tutti e don Orazio fu condannato a morte.

Incredibilmente, però, riuscì a farla franca e a svignarsela di soppiatto dalla città non lasciando più traccia di sé. Probabilmente, l’appoggio di uomini altolocati e influenti gli spianò la strada per una rapida fuga che lo salvò dall’imminente condanna.

Anche in questo caso le congetture sono molteplici; alcuni credono che don Orazio, logorato dal pentimento, si rifugiò al “Monastero dei Benedettini” in cerca della propria redenzione. Un ulteriore ipotesi, invece, sostiene che l’assassino fuggì a Malta dopo essersi nascosto per un breve periodo all’interno del medesimo monastero.

Incredibile a dirsi, ma la versione originale dei fatti sembra essere un’altra. A quanto pare, il discendente Antonino Paternò Castello, V marchese di San Giuliano, mentre era in viaggio sulle coste africane, si trovò a leggere un libro di Richard Tully, intitolato “Lettere scritte durante dieci anni di residenza alla Corte di Tripoli”. Attraverso la lettura venne a conoscenza di alcune verità che lo scossero non poco. Man mano che sfogliava le pagine del testo scoprì che l’autore inglese parlava del suo viaggio a Tripoli e, in particolare, dell’incontro avvenuto con il marchese di San Giuliano.

Divorato dalla curiosità, quindi, continuò a leggere il racconto. In una parte della narrazione, era riportato un dialogo in cui il marchese confessava apertamente di aver ucciso la moglie subito dopo averne mascherato la furtiva relazione con il principe della Calabria; si narra pure che il nobile siciliano, una volta fuggito da Catania, venne catturato dai pirati turchi e condotto prigioniero in Libia. Lì, inoltre, pare che si sia convertito all’Islam ed abbia anche sposato la figlia del pascià di Tripoli.
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