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Felici perché ci ricordiamo di loro: la Festa dei Morti tra credenze, documenti e storie

Un tempo gioiosa e colorata come il Dia de Muertos messicano, la "Festa dei morti" si celebrava nella felicità di ricordare i cari che, felici di essere ricordati, tornavano

  • 30 ottobre 2019

Un frame del film "Coco" (Disney, ha vinto 2 Oscar): da vedere per la Festa dei Morti

Il principio base che ha ispirato e sostenuto nel corso dei secoli la nostra festa dei morti fu quello di credere fermamente all’esistenza di un legame profondo tra la vita e la morte. Eraclito, filosofo del "Logos", teorizzava la coincidenza degli opposti ("Armonia nascosta"): la morte era quindi vissuta con uno spirito sostanzialmente sereno e fiducioso.

La componente di paura, di ansia e di mistero che l’evento comunicava, veniva gestito, quindi, come un sentimento di umana naturalezza. La cultura moderna, invece, ha allontanato questo legame naturale che univa la vita e la morte, ha relegato quest’ultima in una dimensione così lontana, da viverla oggi come un vero e proprio tabù.

Anche Virgilio, nel Quinto libro dell’Eneide ci offre una delle testimonianze più antiche del carattere gioioso e festoso di commemorazione dei defunti in terra di Sicilia. Racconta, infatti, che Enea dopo avere salvato il padre Anchise dalle fiamme di Troia trasportandolo sulle spalle fino alle navi, giunse in Sicilia. Arrivati a Drepanon (Trapani), Anchise morì.
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Nel commemorare il primo anniversario della morte del padre, Enea organizzò sotto il monte Erice, oltre alle preghiere ed ai sacrifici, i Ludi cioè spettacolari e festanti giochi sportivi contornati da banchetti e libagioni.

Tornando a noi: nella tradizione siciliana i morti si festeggiano portando regali ai bambini il 2 novembre, come mai? Quasi tutti i riti delle tradizioni popolari sono legati al ciclo della natura ed al trascorrere delle stagioni. Nella cultura contadina di sempre, l’inizio di Novembre fu considerato la morte definitiva della bella stagione.

In questi giorni si spengono anche gli ultimi sussulti di vita, i semi giacciono sepolti nei campi, le foglie si staccano dai rami, gli animali fuggono o si abbandonano ad un sonno profondo simile alla morte.

Sopraggiunge l’inverno con il suo freddo ed il suo buio. E così, come la natura percepisce la presenza dell’energia opposta a quella vitale, ecco perchè l’uomo pensa che questo sia il momento di maggiore vicinanza con la dimensione della morte.

Il momento perciò più propizio per i defunti per scavalcare le mura di cinta che li separano dalla vita e tornare, anche solo per una notte, a fare visita ai propri cari. I defunti del 2 novembre non sono però dei fantasmi ma spiriti resi "vivi" dalla forza della rievocazione dei parenti.

Questa presunta presenza provoca la gioia di ricordarli, possibilmente senza rimpianti e tristezze. Si valorizza e si amplifica l’istante, la felicità dell’essersi ricordati di loro. Da sempre il modo per onorare l’eccezionalità e la straordinarietà dell’unione è di mangiare insieme, condividere l’atto più vitale dell’esistenza che è il nutrirsi.

Antichi documenti attestano che fino al IV-V secolo, durante la giornata del 2 novembre, erano molto diffusi i banchetti organizzati addirittura all’interno dei cimiteri. L’idea e la convinzione forte del potere d’unione che ha il cibo è rappresentata nella sua forma più eclatante dalla sacra presenza del pane e del vino nella celebrazione della messa.

Mangiare l’ostia e bere il vino significa nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo, significa entrare in "comunione" con il Divino, l’altare è un tavolo e i fedeli sono dei commensali speciali: da 2000 anni la Santa Messa ripropone e rivive la cena di Gesù. I morti, quindi, nel portare ai propri parenti i cibi prelibati (martorana, biscotti a forma di ossa, pupi di zucchero o ramette di miele) materializzano con gioia il proprio spirito e donandosi favoriscono la cena rituale e il raggiungimento della loro comunione.

Perciò, a Palermo (luogo dove nacque la tradizione di regalare le statuette di zucchero per la “festa dei morti”), i pupi di zucchero si chiamano pupaccena: il suffisso "cena" sta ad indicare emblematicamente il carattere rituale delle statuette di zucchero.

Non pupi qualsiasi, ma "pupi di e per la cena-sacra", da mangiare con uno stato d’animo allegro e triste allo stesso tempo ed anche simbolo della spiritualità. Oggi invece la morte non si nomina neanche, per riferirsi ad essa si ricorre ad innumerevoli ed artificiosi eufemismi.
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