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Forse non ci crederete, nel ‘700 la schiavitù a Palermo era tollerata: sodomia compresa

Trecento anni fa in città c'erano circa 650 schiavi in balìa dei padroni che ne sceglievano le sorti, comprese quelle sessuali che fecero parlare di "anarchia morale dei siciliani"

  • 2 dicembre 2019

"The Abolition of the Slave Trade", dipinto inglese del 1792

Forse non ci crederete ma nel ‘700 la schiavitù a Palermo era tollerata. Nel 1565, il vicerè aveva indetto un censimento al fine di arginare il pericolo dell’invasione turca. Valeva conoscere tutte le forze valide al fine di difendere la città. Chiese espressamente di indicare anche il numero degli schiavi che ogni nobile o mercante disponesse. Proprio così.

Risultò che a Palermo c’erano 645 schiavi, 118 erano bianchi, 115 olivastri e 223 negri. La maggior parte di questi ultimi proveniva dalla Nigeria. Ma non finiva qui. Ve ne erano quasi altrettanti di sesso femminile. Lo schiavismo in quel periodo era un fenomeno diffuso in tutta l’Europa meridionale. Lo scrittore Paolo Caggio, li denominava nemici della famiglia, presunti assassini dei padroni, mangiapane a tradimento etc. Li reputava nemici in casa e non dei poveri disgraziati catturati in mare o rapiti dai loro villaggi africani.

Predicava l’odio nei loro confronti, per non incorrere in inconvenienti causati dalla bontà d’animo, scriveva che erano «la più ottima e principale possessione» oppure «il dominio che noi abbiamo degli huomini, onde ne seguitano la dignità, e le reputazioni». In quasi tutti i paesi Europei c’erano leggi e decreti a tutela di questi poveri disgraziati che vietavano il loro maltrattamento.
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A Palermo, invece, erano in balìa del padrone. Palermo era anche il principale mercato di tutta la Sicilia. Il Vicerè di turno, era sempre un ottimo acquirente. Li usava come regatori incatenati alle sue galere (nda. navi). Talvolta però era proprio lui che li metteva in vendita. Il 28 Settembre del 1613, furono messi all’asta 356 schiavi catturati in mare. Anche i Padri Gesuiti erano ottimi compratori.

In un documento del 1500 si parla di un negro denominato Tommaso, un prigioniero di guerra che aveva lasciato moglie ed i figli in Africa, molto servizievole e sveglio ma accusato di avere tentato varie volte la fuga da Palermo. I Gesuiti, quindi, chiesero consigli alla Casa Generalizia di Roma: «Che dobbiamo fare di lui?». Da Roma risposero dopo qualche mese: «Non abbiamo deciso, certo è sconsigliabile lasciarlo libero, perché potrebbe anche non tornare più». Dopo due anni di prigionia, i Padri scrissero a Messina che «Tommaso, in attesa della risposta da Roma, si sta lasciando morire di fame».

Nel Novembre del 1781, due fratelli “marmorari“ Pietro e Salvatore Palazzo, uccisero uno schiavo nero che era proprietà del marchese di Santa Croce Celeste. Il delitto fu perdonato dalla moglie dello schiavo che disse: cos’altro potevo fare? Ella, ebbe come contropartita 20 oncie. L’ultimo caso di schiavismo si registrò nel 1812, quando il principe di Petrulla supplicò il Re Ferdinando di Napoli, affinchè gli fosse restituito lo schiavo moro fuggito e arruolato nel Corpo Reale dei Cacciatori del mare. Chiese che almeno gli fosse restituito il prezzo d’acquisto.

Il Consultore Regio Trojsi si oppose, affermando che era stato battezzato, quindi, non poteva più essere relegato a condizione di schiavo. Ma la Giunta di sua Maestà lo restituì al Petrulla con la clausola che un Giudice avrebbe controllato in seguito eventuali casi di maltrattamenti.

Per quanto riguardava le schiave, è chiaro che servivano sia a casa sia a letto. Lo dimostra il numero considerevole di discendenti servili "olivastri", come si nota in alcuni documenti. Già nel 1500, a Palermo vi furono casi di "schiavotti" (giovani di bell’aspetto) sodomizzati. Persino le autorità spagnole dissero che era un orrore. Ma il fenomeno continuò. In una lettera datata 11 Maggio 1577, il duca di Terranova scriveva a Madrid che il "vizio nefando" è cosa generale e che le pratiche omosessuali sono diffuse in tutto il Regno, anche nei luoghi insospettabili e fece l’esempio del villaggio denominato San Filippo dove se ne trovarono 250 "tocado deste mal" (toccati dal male).

Il Vicerè rispose che purtroppo il guaio era procedura giudiziaria tollerante e "no da temor a esta gente muy li cenziosa y de lama natura" (non c’è da temere da queste persone che infangano la natura). Questo era il guaio. E la legge... soprassedeva. Sotto il Regno di Carlo V, la Sicilia fu colpita da diverse calamità naturali e s’incolpò l’anarchismo morale dei siciliani. Neanche la Santa Inquisizione si occupò di questo fenomeno, anzi, tendette a sminuirlo perché proprio i frati ed i preti praticano la sodomia.

Argisto Giuffrida, moralista dell’epoca, a tal proposito, così scriveva: «Ricordatevi di non tener mai in casa giovani di migliore aspetto di voi, né tenete mai paggi di bella vista, né avendo paggi o schiavotti gli fate dormir mai con altri servitori, ma separati sempre, e ciò per levar ogni occasione non solo di mal fare, ma di mal pensare ancora».
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