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Ha salvato la produzione della manna e ne è il custode: sulle Madonie "l'ultimo degli intaccatori"

Se oggi tutti sappiamo cos’è, se nell’immaginario collettivo non è solo quella che cade dal cielo ma è un prodotto d'eccellenza è grazie alla tenacia e all’intuito di Giulio

  • 10 gennaio 2021

Giulio Gelardi (foto di VIviana Corvaia per CreativeMornings/Palermo)

Una conversazione con Giulio Gelardi può spaziare dalla botanica all’economia, dalla mitologia scandinava al cambiamento climatico, dalla sociologia alla farmacopea dell’Ottocento, dal sapere contadino al marketing senza soluzione di continuità.

È un agricoltore, un filosofo della natura ma soprattutto è colui che ha salvato la tradizione della manna. Se oggi tutti sappiamo cos’è, se nell’immaginario collettivo non è solo quella che cade dal cielo ma è un prodotto d’eccellenza (e presidio Slow Food) è grazie alla tenacia e all’intuito di Giulio che con le sue 500 piante in mezzo alla Sicilia, tra Pollina e Castelbuono, ne è il maggior produttore.

Un tempo la manna, che è la linfa dei frassini e si ottiene dalla loro incisione, si produceva in quasi tutta Italia, oltre che in Sicilia, anche in Calabria, in Basilicata, in Puglia, in Abruzzo, in Molise, attorno a Roma, nella Maremma Toscana, e fuori dai nostri confini anche in alcune parti della Bosnia e della Croazia. Nel ‘900 sparisce praticamente ovunque. Oggi esistono solo 40 produttori in tutto il mondo e, a eccezione di una piccola enclave a Custonaci, nel trapanese - che però sempre da Giulio ha origine - sono tutti lì, e per gran parte ultraottantenni, nel cuore del Parco delle Madonie.
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Sì, perché sembra facile ma in realtà la raccolta della manna è complicatissima, richiede una simbiosi con la natura, una profonda conoscenza del suo linguaggio e dei suoi ritmi. La manna è patrimonio dei contadini che si tramanda di padre in figlio, sul campo, basta che salti un passaggio e la sua tradizione è perduta. Ed è esattamente quello che è accaduto.

E che stava per accadere anche in Sicilia. «Io sono nato con la manna - racconta Giulio - mio padre era uno dei più vecchi produttori di manna di Pollina ma per tutta l’adolescenza io la manna l’ho cordialmente odiata. Era uno di quei lavori agricoli in cui ti massacravi di lavoro senza riuscire a pagarti la giornata».

Quindi parte, Giulio. Per una quindicina d’anni vive in Toscana «ma un certo punto cominciai a riscoprire la manna dentro la mia testa», dice, a 35 anni ritorna determinato a occuparsi di questo prodotto e inizia a studiare.

«La manna ha una cultura particolarissima - continua - se fosse andata perduta, sarebbe stato come se a sparire con lei fosse stata anche tutta la cultura dei miei antenati, a partire da mio padre, da mio nonno che avevano vissuto tutta la vita per la manna. Mi sentivo responsabile della sopravvivenza di un prodotto che rischiava di non esserci più.

E poi pensavo alla Coca-Cola - ride. - Ma come, gli americani ci vendono a prezzi esorbitanti un’accozzaglia di prodotti e la impongono a tutto il mondo e noi che abbiamo un prodotto di una genuinità spaventosa sicuramente salutare e buona non riusciamo a venderla? E allora siamo proprio degli incapaci».

La sfida (vinta) era portare avanti una tradizione e farla diventare economicamente valida. Conosciuta fin dall’antichità, anche se non se ne hanno notizie scritte fino all’anno Mille, veniva usata dagli erboristi e dagli aromatari, nel ‘400, nel ‘500, nell’800 poi era usatissima in Francia, a Londra, ad Amsterdam. Soprattutto all’estero c’era un interesse fortissimo verso questa sostanza, anche superiore all’Italia che era il Paese in cui si produceva.

Oltre che buona, la manna è da sempre considerata un prodotto prezioso, quasi magico, veniva utilizzata in farmacia per le sue proprietà nutritive, depurative, decongestionanti, antimicotiche e cicatrizzanti. Inoltre veniva usata come dolcificante e chiamata “zucchero per diabetici” perché non altera il livello glicemico del sangue.

Finché, nel secolo scorso, lo sviluppo industriale ne decretò la fortuna e poi la sconfitta. I chimici, tra cui due nomi grossi dell’alimentazione e della medicina, Carlo Erba e Justus von Liebig, individuarono la mannite, principale componente che si otteneva dalla sua depurazione. La mannite invase il mercato, fino al punto che la manna veniva venduta non in base alla sua qualità ma al contenuto di mannitolo che era usato come prodotto industriale. Tra la fine dell’800 e oltre metà del ‘900 manna e mannite finirono per essere identificate, «un po’ come dire che limone e acido citrico sono la stessa cosa», spiega Giulio.

La sua battaglia era quindi contro l’industria che si è dovuta inchinare al produttore. «Il mio obiettivo era diventato saltare il passaggio industriale, volevo ottenere una manna purissima direttamente sul campo», continua. E con un colpo di genio fu esattamente quello che riuscì a fare, grazie alla tecnica del filo. Ma andiamo con ordine.

La manna, dicevamo, si ottiene incidendo i frassini - sulle Madonie per la precisione il Fraxinus ornus e il Fraxinus angustifolia - in un preciso momento dell’anno, nei mesi di luglio e agosto perché la pianta deve essere matura (e capire quando lo è implica l’essere in grado di afferrare tanti piccolissimi, impercettibili segnali, da un leggero cambio di colore delle foglie al terreno, ed ecco spiegata la necessaria simbiosi con la natura). L’incisione, la “‘ntacca” (ecco già la seconda difficoltà) deve tagliare sia i vasi che scendono dalla foglia verso le radici, quelli ricchi di zucchero, sia il legno da cui sale la linfa dalle radici verso le foglie, in modo che si mescolino le due linfe ed esca fuori un succo che man mano si cristallizza. «Infatti - scherza Giulio - dico sempre che io la manna non la so fare, ma neanche l’albero la sa fare senza il mio intervento. È un rapporto tra me e la pianta».

Una volta la manna si lasciava una settimana sulla pianta finché si solidificava completamente e veniva raschiata durante la raccolta insieme però a corteccia, piccoli insetti e altre impurità. «Quando io iniziai a fare manna una quarantina di anni fa con mio padre - ed ecco che arriviamo all’evoluzione - cominciai a capire che la manna che aveva veramente valore non era quella raschiata ma quella pulita perché non richiedeva un passaggio attraverso l’industria, si poteva vendere direttamente come purissima. E allora cominciai a ingegnarmi per trovare un metodo.

Dopo vari tentativi, quello giusto arrivò grazie a un colpo di fortuna». Un filo, appeso lì dove la linfa sgorga e forma la stalattite. Lasciandola scorrere lungo di esso, la manna che si ottiene è pulitissima ed economicamente molto interessante, anche perché si asciuga prima, grazie a una maggiore esposizione all’aria, e quindi dipende meno da fenomeni atmosferici, come una banale pioggia che rischia di distruggere l’intero raccolto.

La sua attività di ricerca non si ferma mai. «Ogni anno quando comincio, nonostante l’esperienza incredibile che ho sulle spalle dopo tanti anni, mi sento totalmente ignorante. Nel senso che sto lì a vedere come reagiranno le piante e disponibile a imparare ogni volta qualcosa di nuovo». Dopo la raccolta viene lasciata ad asciugare per bene e poi conservata. Oggi Giulio produce manna di qualità eccellente, purissima. La troviamo nelle erboristerie, nelle farmacie, nel cioccolato modicano, nei cosmetici, nei saponi e in un liquore buonissimo.

E per aggiungere un altro elemento che la dice lunga sulla sua visione di mondo: Giulio ha rifiutato proposte economicamente molto vantaggiose da parte della grande distribuzione organizzata pur di continuare a distribuire la sua manna a una rete commerciale costruita negli anni e basata sulle relazioni, fatta di piccoli negozi virtuosi in tutta Italia che al suo progetto hanno creduto sin dall’inizio.
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