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I lavatoi in Sicilia, tra liscivia, cenere e gusci d'uova: gli antichi "circoli" per donne (sole)

Fino agli anni Sessanta si potevano incontrare donne anziane, cariche di ceste di panni, che si dirigevano verso il lavatoio pubblico, senza accompagnatore

Marco Giammona
Docente, ricercatore e saggista
  • 8 gennaio 2023

Un lavatoio in Sicilia

I lavatoi pubblici rappresentano una delle testimonianze più preziose e, in moltissimi casi, meglio conservate della nostra storia pre-industriale e della cultura contadina.

Sino agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, ossia fin quando venne portata l’acqua corrente nelle abitazioni e fino all’avvento delle lavatrici, in quasi tutti i comuni della Sicilia si potevano ancora incontrare alcune donne anziane, cariche di ceste di panni, che si dirigevano verso il lavatoio pubblico.

Negli anni, parecchi di questi manufatti sono stati restaurati dalle amministrazioni comunali più sensibili e resi funzionanti; altri sono stati lasciati in stato di abbandono e nell'incuria generale, come se si trattasse di residui e inutili tracce del nostro passato. Eppure vi fu un’età in cui la costruzione di un lavatoio era percepita da una comunità come un’irrinunciabile conquista di carattere sociale.

I primi esemplari compaiono in Italia nel corso del 1500, per poi diffondersi progressivamente solo a partire dalla metà del XIX secolo con il progresso dell’igiene e della medicina. In questo periodo i lavatoi si diffusero un po’ ovunque, anche nei centri più piccoli dove gli abitanti chiedevano agli amministratori, attraverso petizioni scritte e lettere, la costruzione di un lavatoio comunale.
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I lavatoi venivano ovviamente costruiti in prossimità di una fonte, di una sorgente, dalle quali l’acqua veniva captata e convogliata nella grande vasca centrale in pietra. La vasca, la cui dimensione permetteva contemporaneamente il lavoro di alcune donne, era composta da un piano inclinato in pietra, sul quale, le lavandaie, con la forza delle braccia, lavavano e risciacquavano gli indumenti.

Talvolta la vasca era suddivisa in due o anche tre bacini comunicanti, dei quali, quello in prossimità dell’acqua sorgiva, era destinato al risciacquo.

Per quanto concerne i materiali da costruzione i lavatoi più antichi, perlopiù a vasca unica, erano realizzati con pietra locale. Il duro mestiere di lavandaia era appannaggio femminile quasi esclusivo ed era riservato soprattutto alle donne sole: madri nubili, zitelle, vedove di guerra o del lavoro.

Gli uomini di casa, padri, fratelli o mariti che fossero, infatti, generalmente non permettevano che le proprie donne mettessero le mani nei panni sporchi altrui, a meno che i pochi soldi guadagnati dalle donne non fossero indispensabili alla sopravvivenza della famiglia.

I panni sporchi, raccolti presso le case signorili dalle stesse lavandaie, venivano trasportati al lavatoio sulle forti spalle delle donne, dentro sacchi di iuta contrassegnati da nastrini colorati (un colore per ogni famiglia proprietaria).​

A nulla sarebbe valso infatti scrivere sui sacchi stessi nomi e cognomi, le lavandaie erano per la stragrande maggioranza analfabete.

Caratteristico era anche l’abbigliamento povero delle lavandaie che aveva due segni distintivi molto particolari: il fazzoletto a doppia punta, legato sul capo e le lunghe gonne con l’orlo rialzato e infilato nella cintura, precauzione necessaria per evitare che si inzuppassero.

Il bucato, si faceva ogni quindici/venti giorni, qualcuno anche una volta al mese, mentre nelle famiglie più povere, a causa della penuria di vestiti e biancheria, era necessario farlo molto più frequentemente.

La pulizia dei panni veniva eseguita con detergenti diversi. Il più comune ed anche il meno costoso era il cosiddetto “ranno”, usato per sgrassare, ottenuto con il filtraggio dell’acqua calda attraverso la cenere di legno chiaro, sostenuta da un vecchio lenzuolo preferibilmente di lino. Più tardi la funzione sgrassante del lavaggio fu affidata all’uso della soda.

Altri detergenti erano la lisciva o liscivia, usata per lavare e imbiancare, oppure la varechina, detta candeggina o acquetta, usata per smacchiare; talvolta per rendere più efficace l’azione sgrassante del ranno venivano aggiunti gusci d’uova tritati.

Nel primo risciacquo dei tessuti bianchi, venivano aggiunti lavanda, foglie di menta o basilico come profumatori. In tempi più recenti si affermò l’uso del sapone in pezzi o liquidato, il più famoso è sicuramente il sapone di Marsiglia, denominato così dalla città francese in cui si trovava la maggiore produzione.

La pesantezza del lavoro era in parte alleviata dal fatto che il lavatoio era uno dei pochi luoghi di aggregazione femminile nel quale le donne potevano andare senza essere accompagnate, là ci si ritrovava, si scambiavano ricette, consigli e pettegolezzi, si partecipava alle gioie e alle disgrazie delle altre e si condividevano le proprie, si cantavano canzoni nostalgiche e patriottiche, strambotti ironici e amorosi, stornelli satirici e a dispetto.

Si tramandavano storie e racconti di vita, si rideva e talvolta si litigava, si rifletteva sulla propria disgraziata condizione e su quella altrettanto precaria di molte altre donne.

In questi luoghi di aggregazione sono nate e si sono diffuse ed affermate le prime rivendicazioni dei diritti femminili; questa è una delle ragioni per le quali gli antichi lavatoi dovrebbero essere conosciuti, tutelati ed apprezzati come siti storici, secondo le direttive emanate anche dall’Unione Europea.

Purtroppo, come spesso accade quando l’uomo deve occuparsi dei segni della nostra storia e delle migliori tradizioni di un territorio, tramandati da chi ci ha preceduti, troppo tardi si è presa coscienza del valore storico, culturale e sociale rappresentato da questi manufatti, parte dei quali, seppur tutelati e vincolati dalla legge, sono stati lasciati in stato di incuria per troppo tempo, o, ancor peggio, incautamente e frettolosamente distrutti.
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