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Il "papà" dei progettisti di Palermo, Fausto Provenzano: l'architettura è un'occasione

Dietro a quella scrivania, avvolto dall’abbraccio di libri, progetti e riviste, Provenzano non nasconde la sua personale fiducia nel mestiere di architetto, mentre condivide i ricordi

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 5 gennaio 2022

Fausto Provenzano durante l'intervista

C’è questa suggestiva fotografia in bianco e nero, datata 1972, in cui davanti a Carlo Scarpa (1906-1978), suo relatore, è di spalle il neo-architetto Fausto Provenzano indirizzato in favore delle tavole “rigidamente disegnate a mano” della sua tesi di laurea sulla conurbazione del pordenonese, tesi tra le poche, pochissime del maestro veneziano dal taglio rigidamente urbanistico, in cui fu altresì correlatore Gianugo Polesello (1930- 2007). Me la mostra con estremo orgoglio.

«L'architettura è un'occasione – tiene a precisare subito Provenzano nel nostro lungo e piacevole incontro avuto – e l'architetto è e deve essere un soggetto coraggioso, perché è proprio lui che trasforma un pezzo di natura in un pezzo di cultura».

Per lui, palermitano volato allo I.U.A.V. di Samonà, Scarpa, Tafuri, Aymonino, Puppi nella difficile parentesi di passaggio del ’68, dopo aver frequentato nella sua città natale il liceo classico Gonzaga ed il primo anno di Architettura con Sergio Lenci, professione e insegnamento hanno rappresentato due inscindibili “convergenze culturali” di cui sono coordinate fisiche le decine di realizzazioni, pubbliche e private disseminate nel territorio del capoluogo siciliano e non solo, ancora oggi testimonianza di rara e calibrata modernità.
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Formatore di generazioni di progettisti per circa un quarantennio, già docente di Architettura e Composizione architettonica alla facoltà di Ingegneria di Palermo, Provenzano comincia subito dopo la laurea la sua collaborazione con Vittorio Gregotti in qualità di assistente alle esercitazioni, per spostarsi già alla metà degli anni Settanta presso la Facoltà di Ingegneria, prima come assistente di Vittorio Ziino e subito dopo la sua scomparsa in qualità di docente egli stesso.

Una carriera costellata da quelle “occasioni architettoniche”, coltivata con costanza e quella indispensabile, adrenalinica tensione al cantiere, ricca di sperimentazione e ricerca, trasversale rispetto alle tipologie piegate alle ragioni del progetto e condotta nella piena consapevolezza del ruolo culturale dell'architetto costruttore di quei sempre più necessari
spazi di socialità contemporanea.

Stride e non poco la vasta produzione architettonica e l'immagine ragionata e coerente dei diversi progetti di Provenzano, se rapportata alla dimensione schizofrenica in cui oggi si muove il vituperato profilo/immagine dell'architetto contemporaneo, molto più vicino alle caratteristiche dell’avvocato amministrativista che al creatore di spazi e di habitat, specie in una città che come Palermo non offre più occasioni progettuali se non che briciole da ricercare quasi al buio.

Al contrario, Provenzano, titolare di uno degli studi di Architettura tra i più longevi del palermitano, ha potuto sperimentare e verificare personalissime intuizioni e sintassi progettuale in molteplici realizzazioni tra cui una decina di ville private (Barbaro, Terranova, Simonetti, Orlando), alcuni piani urbanistici, restyling di hotel tra cui La Torre a Mondello, Sole a ridosso dei Quattro Canti, Borsa; decine di restauri e cosiddette “riparazioni architettoniche” tra cui indispensabile appare segnalare quelli relativi ai Palazzi Tagliavia, Natoli, Trinacria, Cattolica-Briuccia, del Gran Cancelliere, Villa Laura al terminale della via Dante e ancora la riconversione in chiave ricettiva della basiliana ex Cassa di Risparmio.

“Da studente – ricorda ancora – passavo le giornate ammirato ad osservare il negozio Olivetti di Scarpa a piazza San Marco, docente difficile ma geniale e dal linguaggio immediato e subito riconoscibile”, elementi questi ultimi che tratteggiano non tanto il linguaggio architettonico dello stesso Provenzano, quanto la sua concezione di progetto architettonico inteso come governo del processo creativo a supporto dell'idea originaria.

Nella eterogenea produzione dell’ultimo mezzo secolo, le architetture di Provenzano restano difficilmente codificabili all'interno di logiche eminentemente stilistiche, conservando però la freschezza di ragionamenti inerenti la natura universale del progetto, restando al tempo stesso nel solco di quella ricerca architettonica siciliana del secondo Novecento, spesso una ricerca intrisa di pregiate intuizioni formali e spaziali, funzione dei diversi talentuosi progettisti appartenenti all'eterogeneo mosaico siciliano.

Se il dialogo tra Contemporaneo e Floreale appare ben risolto nella nuova veste tipologico/funzionale dell'edificio di piazza Borsa (2011), luogo urbano in cui la corte centrale diviene un nuovo fulcro sociale fruibile persino quando piove per mezzo della soluzione meccanizzata di chiusura del soffitto, è forse nel restyling di Palazzo Asmundo (1986), tra gli anni Ottanta e Novanta che l'architetto palermitano invera, poco prima che il P.P.E. entrasse in uso, la propria idea di riparazione dell'architettura.

Qui infatti, nella suggestiva, forse unica, cornice edilizia prospiciente la Cattedrale Normanna, Provenzano sperimenta dando spazio alla contemporaneità architettonica priva ancora delle rigidissime ingessature tipologiche del piano di Benevolo e Cervellati, intessendo volutamente con la storia dell'edificio e di questo delicato brano urbano, quel rapporto stratificativo tipico delle città italiane, concedendosi il lusso di molteplici licenze poetiche come il richiamo scarpiano del bussolotto del portiere al piano terra e ancora al piano attico dove, superato il proprio studio professionale, si raggiunge un piccolo terrazzo comune governato dalla presenza di vasche d'acqua e percorsi pedonali netti e minimi,
“scarpiani” appunto.

Vi è infine la dimensione più contemporanea e ormai persino storicizzata degli interventi ex novo; due su tutti: la scuola sperimentale Emanuela Loi nel quartiere Passo di Rigano (1988) e lo sfortunato centro commerciale Solvey (1993) nel difficile quartiere dei Cappuccini, ultimato e mai entrato in esercizio perché oggetto impropriamente di
sequestro giudiziario, solo recentemente restituito alla proprietà bensì seviziato da due decenni di incuria e vandalismo incontrollato e tollerato.

Mentre nella piccola scuola di quartiere, è possibile ravvisare quell’estro tipico nel rapporto forma/funzione, con diverse licenze formali spesso influenzate dal gioco e dalle ragioni legate all’apprendimento con spazi ben armonizzati nel continuum del rapporto tra interno ed esterno, tra naturale ed artificiale, nel centro commerciale prevale piuttosto la rigidità dell’aspetto funzionale legato all’ottimizzazione degli spazi commerciali con grande attenzione posta agli aspetti funzionali e logistici, estremizzando quasi, il linguaggio esterno nel tentativo di palesarne la natura commerciale/industriale del sito.

Dietro a quella scrivania, avvolto dall’abbraccio di libri, progetti e riviste, con lo sguardo privilegiato a traguardare la cupola neoclassica di Ferdinando Fuga, Provenzano non nasconde la sua personale fiducia nel mestiere di architetto, mentre condivide quel ricordo per nulla sbiadito, di quel suo primissimo progetto siciliano di spazio pubblico a Corleone
città d'origine della famiglia, in cui l'architetto appena tornato da Venezia, regalò il progetto di riqualificazione per la piazza Garibaldi a ridosso della Chiesa di San Martino dove ancora, sotto la luce netta della Sicilia interna e malgrado l’impropria presenza di automobili al posto dei pedoni, imperano quegli scorci dai rimandi scarpiani, a mezzo secolo di distanza, quasi fosse una scommessa personale dell'architetto vinta con la memoria e in favore dell'architettura contemporanea.
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