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Il primo caso in Sicilia di persona liberata dai carabinieri: i 50 giorni al buio del barone Agnello

Era il 1955 quando a Cianciana, in provincia di Agrigento, il giovane Francesco venne rapito, bendato e fatto salire su un mulo. Tutti sul momento pensavano a una rapina

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 3 aprile 2021

Il barone Francesco Agnello

Varie bande di malfattori, veri sodalizi criminosi, si formarono subito dopo la seconda guerra mondiale in Sicilia.

Bande di criminali, anche improvvisate, agirono in armi quasi in tutta l'Isola, particolarmente nelle province di Trapani, Palermo, Agrigento consumando una lunga serie di delitti contro il patrimonio e la persona, restaurando il predominio della violenza e del terrore.

In questo contesto, caratterizzato oltre tutto dalle difficoltà degli organi di polizia che mancavano di uomini e di mezzi per garantire l'autorità dello Stato, ripresero vigore e potenza i rapimenti di persone facoltose. Un sequestro di persona in particolare ebbe risonanza nazionale per circa due mesi.

Avvenne nel 1955 a Cianciana, in provincia di Agrigento. Il 18 ottobre di quell’anno, il barone Stanislao Agnello, ricco possidente agrigentino, si trovava in una sua casa a San Giovanni Gemini, con il figlio Francesco, per affari, quando due presunti cacciatori bussarono quel pomeriggio chiedendo ospitalità, cosa che era in uso in simili contrade, piuttosto isolate.
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Quel pomeriggio tra l’altro vi era stato in effetti nella zona un forte acquazzone e i due cacciatori dissero di essere stati sorpresi dalla pioggia. Ma non appena furono dentro ordinarono agli Agnello e ad altri due loro ospiti di alzare le mani, minacciandoli con le armi che avevano imbracciato.

Tutti sul momento pensavano ad una rapina. Invece i banditi chiusero in un magazzino l’anziano Stanislao Agnello e i suoi ospiti e sequestrarono il giovane Francesco, che venne bendato e fatto salire su un mulo.

Non dimenticarono di mettere fuori uso le auto che si trovavano nella fattoria e di prendere un mulo e una giumenta. Dopo un lungo cammino i banditi raggiunsero la grotta, all'interno del Bosco Cavallo di Cianciana. In questa cella venne fatto scendere Francesco.

Per cinquanta giorni non avrebbe più rivisto il sole. Aveva allora 24 anni. Era stato strappato al suo pianoforte e ai suoi quadri, perché era il figlio di un facoltoso proprietario siciliano.

Nella fattoria degli Agnello a San Giovanni Gemini, solo dopo alcune ore il barone Stanislao e gli altri, che erano stati chiusi con lui nel magazzino, riuscirono ad uscire e raggiunsero il paese di Cammarata per dare l’allarme e fare iniziare le ricerche dai Carabinieri.

Fin dai primi giorni vennero impiegati ben 200 carabinieri del gruppo di Agrigento e di Palermo, che nei giorni successivi arrivarono anche a seicento.

Tappa per tappa, anfrattuosità per anfrattuosità, nel dedalo dei viottoli tra impervi sentieri montani e scoscesi dirupi, cercavano ovunque: nei caseggiati di montagna, nei pagliai, nelle stalle, seguendo indizi, orientamenti, intuizioni, perlustrazioni, nel corso di continui pattugliamenti.

Tutta la vasta zona montana di Cammarata, Santo Stefano Quisquina, Castronovo di Sicilia, venne “pettinata” per giorni e giorni senza esito. Il dirigente della Squadra Mobile Aldo Tandoj comandava le operazioni di ricerca, insieme al questore di Agrigento Nicola Monteleone, il maggiore dei Carabinieri Renato Candida, il maggiore Eduardo Palombi, il capitano Renato Ricciardi. Tandoj venne ucciso qualche anno dopo dalla mafia agrigentina e a Renato Candida si sarebbe ispirato Sciascia, circa dieci anni dopo i fatti, per la figura di Bellodi ne “Il giorno della civetta”.

Erano insomma alla ricerca del giovane Agnello alcuni tra i migliori investigatori del tempo. Giunsero ad Agrigento decine e decine di giornalisti che venivano spesso assediati nei bar e per le vie dai lettori per sapere le ultime novità sul sequestro. L’attesa diventava, sempre più snervante perché non si aveva nessuna idea di dove i banditi avevano nascosto il giovane e se questi era ancora vivo.

Un impenetrabile mistero, un cupo silenzio circondava il sequestro del giovane patrizio. Gli investigatori riuscirono ad intercettare una lettera che i sequestratori avevano fatto avere al barone. Si parlava di un appuntamento lungo lo stradale Santo Stefano di Quisquina – Raffadali.

Sul posto, ben celati, si trovano anche i Carabinieri che videro un giovane uscire da Fiat Seicento e facilmente scoprirono che era stata presa a noleggio da un giovane di Cianciana di nome Giuseppe Di Maria. Il 7 dicembre il maresciallo del paese di Cianciana convocò Di Maria, che venne interrogato per diverse ore dal maggiore Renato Candida, in servizio ad Agrigento e dal maresciallo Pinzino, della legione di Palermo.

Verso la fine della giornata, Di Maria crollò e fece pure i nomi degli altri manigoldi e dei paesi in cui abitavano. Nella notte con una retata tutti gli altri componenti la banda vennero catturati nelle loro case. Di Maria rivelò inoltre dove si trovava la una grotta in cui era tenuto prigioniero il giovane Francesco.

Alle quattro del mattino dell’otto dicembre, Di Maria si mise in marcia con alcuni sottufficiali e carabinieri verso la grotta e giunto sul posto chiamò: “Castelli! Castelli! Vieni che ti do il cambio”. Dall’antro, carponi, sbucò un essere minuto e sgraziato e appena vide i militari buttò la pistola e disse: “Sono sequestrato anch’io”.

“Pezzo di cornuto”, gli disse il maresciallo Pinzino, mentre lo afferrava e lo buttava in braccio a due carabinieri. Sul momento quel vociare sembrò al povero Francesco il solito concitato scambio di battute che avveniva ad ogni cambio di guardia.

Poi però si sentì chiamare per nome e distinse che qualcuno gli chiedeva di uscire. “Un minuto”- gridò il giovane – che mi metto le scarpe”. “Ma che scarpe”, gli risposero, “vieni fuori, subito”.

Francesco fece in fretta e appena fuori si trovò dinanzi ad uno sconosciuto che imbracciava il mitra. Pensò di essere caduto dalla padella alla brace. Gli ci volle comunque poco per capire che quelli erano invece i suoi salvatori.

Molti anni dopo il barone Francesco Agnello ha ricordato in alcune interviste quella drammatica esperienza.

«Un giorno chiese a quello che sembrava il loro capo: "perché hai scelto di rapire proprio me?"». Lui mi rispose con sicurezza: «Quando venivo ad Agrigento col mio cestino con le uova, per venderle a Porta di Ponte, vedevo voscenza che arrivava con la macchina ed entrare al Jolly Hotel. Un giorno ho pensato perché lui ci può andare al Jolly Hotel e io invece no? Allora ho pensato al vostro sequestro175.

Sarà proprio questo stesso giovane che condurrà i carabinieri nella prigione di Francesco. E in un’altra occasione ha raccontato: «Non mi trattarono malissimo. Il sequestro durò dal 18 ottobre all’otto dicembre, non è il periodo adatto per vivere in una grotta umida dove entrava l’acqua quando pioveva».

Mafia? «No, banditi. Uno era stato contadino di mio padre. Fu chiesto un riscatto di 60 milioni di lire, che era una bella cifra. Io fui il primo caso di persona liberata dai carabinieri.

I ricordi sono tanti, se ne vuole uno folclorico, quando chiesi a uno dei banditi perché l’avesse fatto, considerato che i sequestri sono pericolosi per chi li fa, mi rispose in dialetto: «Iu sugnu come chiddu che va per acchianari e sempri scinni, io sugnu come chiddu chi va’ per ridere un jornu e chiangi per un anno» (Io sono come quello che va per salire e sempre scende, io sono come quello che ride per un giorno e piange per un anno).
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