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Il suo palcoscenico sono i Quattro Canti: chi è Raquel, la voce della Palermo "di strada"

La storia complessa e affascinante di una donna che con la sua voce incanta e commuove chi passa dal centro di Palermo, un posto che lei chiama "casa mia"

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 5 gennaio 2023

L'artista di strada Raquel Romeo

C’era una volta una città dove gli uomini giocavano - e ogni tanto ci provano ancora - a portare i pantaloni ma invece era sorretta dalle donne. C’erano e continuano ad esserci quattro sante (Ninfa, Oliva, Cristina e Sant’Agata) che questa città la spaccano in quattro parti uguali e che da sempre ne sono le patrone.

C’erano ancora in questo posto anche delle altre donne, conosciute come avvelenatrici (La vecchia dell’Aceto, Francesca la Sarda, Giulia Tofana), e che degli uomini invece ne erano il terrore.

Poi c’era (e c’è!) la femmina più femmina di tutte le femmine, che Palermo l’ha liberata dalla peste e ancora oggi la sovrasta dall’alto del Monte Pellegrino. Guai infatti a dire Viva Palermo senza gridare anche “e Santa Rosalia!”

In mezzo tutto questo sacro e profano, c’è pure la storia di una altra femmina che potrebbe iniziare alla stessa maniera fiabesca: "C’era una volta Raquel che suonava la chitarra nel Teatro del Sole". Per chi non lo sapesse, il Teatro del Sole non è altro che piazza Villena, meglio conosciuta come I Quattro Canti.
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Ed è proprio in questo luogo, e non solo, che suona un’artista che di “strada” ha solo il palcoscenico, la cui voce riecheggia - e non potrebbe essere altrimenti- tra la pietra delle statue e le fontane delle piazze. Raquel si chiama di nome e Romeo di cognome, come Romeo faceva in realtà di cognome la palermitanissima Giuni Russo.

I palermitani che frequentano quello che lei chiama “casa mia”, cioè il centro storico, sicuramente l’avranno vista correre su e giù per il Cassaro a bordo della sua stravagante quanto funzionale Panda Bike, ovvero una bicicletta con un vano anteriore dove Raquel ripone basso, chitarra e l’abitudine di rimboccarsi le maniche.

Una figura - quella di Raquel - a tratti circense, che, come i clown dei circhi veri, concede la sua la sensibilità solo quando si spoglia del trucco e rimane la persona. Quel trucco le va via quando imbraccia la chitarra, comincia a cantare e non sa neanche più lei dove se ne va.

Canzoni siciliane ne canta poche, quelle giuste, eppure dalle sue corde vocali esce una melodia che ha il sapore del Sud e che non poco ricorda quelle cantilene mediorientali di terre lontane che hanno reso Palermo araba per sempre prima ancora di essere normanna. La sua sembra essere una storia predestinata già alla nascita. “Siamo sette figli!”, mi dice portandosi appresso la chitarra ovunque andiamo, come Linus di Snoopy si portava sempre appresso la copertina.

“La primogenita femmina, poi tre coppie di gemelli, me compresa”. E se da un lato avendo sei fratelli certo non ci si può annoiare, dall’altro Raquel non fa nemmeno in tempo a tenere in mano per la prima volta la chitarra e addizionare quante note ci stanno nella tastiera, che la vita le insegna subito come si fanno le sottrazioni perché perde la mamma quando ha appena dieci anni.

“Passerà anche questa stazione senza far male", intonava un cantautore genovese che lei conosce bene, “passerà questa pioggia sottile come passa il dolore”.

Il resto succede in fretta, perché a quell’età ogni cosa va al doppio della velocità, poi a quindici anni la prima svolta. «Facevo la commessa in un negozio di fronte al Teatro Massimo… per fare un regalo ad un mio fidanzato del tempo mi ritrovai a fare una cosa che non avrei dovuto fare e persi il lavoro». Le dico che a tutti da ragazzini è capitato di fare qualche fesseria, o come diciamo noi “qualche minchiata”, ma mi ferma subito.

«Mi sono vergognata del teatro che avevo di fronte. Mi sono ripromessa che sarei tornata a guardarlo in un altro modo, in un’altra situazione». Ancora una volta la vita manda il film avanti come si faceva con il videoregistratore, e Raquel si ritrova una donna, una mamma, con responsabilità diverse e non poche difficoltà.

È in quel punto preciso della sua esistenza che decide di combattere quelle avversità andando per strada, prendendo la chitarra tra le mani e tirando fuori il pianto… scusate, il canto.

È in quel preciso istante che Raquel diventa la musica e la musica diventa Raquel, perché quello è l’unico modo che ha per strozzare il destino. È lei stessa a raccontarlo: «Per me scendere per la strada è fondamentale, è terapia, lo faccio per me. Nel momento in cui inizio a suonare entro in catarsi, entro nel mio mondo e non vedo più niente. Tutto quello che ho dentro esce fuori e si trasforma attraverso la voce».

Non solo le va bene, ma, strada dopo strada, al teatro ci ritorna veramente e questa volta ci entra dentro per esibirsi. È il 21 dicembre del 2016, e al Teatro Biondo di Palermo Raquel apre il concerto di Antonella Ruggiero con un tributo proprio a Giuni Russo. Finita l’intervista la saluto, anche se mi manca la chiusa.

Tuttavia decido di godermi un’ultima canzone perché Raquel non suona nei locali (neanche morta!) ma solo per strada, e quindi non c’è posto in cui ascoltarla se non quello.

Non ricordo quale fosse la canzone, ma ricordo benissimo un signore commosso che le si avvicina per farle un complimento e senza volerlo mi suggerisce come terminare l’articolo. «Raquel - le dice - se Palermo avesse una voce quella sarebbe la tua…».
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