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In Sicilia c'era la Pentecoste "esplosiva": il sacro rito (coi razzi) nella Città dello Stretto

Un'usanza ormai lontana caratteristica della Sicilia Orientale ricorda Cristo che lascia il posto allo Spirito Santo, sceso sugli Apostoli in forma di lingue di fuoco

Daniele Ferrara
Esperto di storia antica
  • 31 maggio 2023

Sacrario Cristo Re Messina

Ah, la Pentecoste! Il punto in cui il Cristianesimo effettivamente inizia la sua storia, un momento oltremodo emozionante per il popolo cristiano d’ogni epoca e nazione: il Cristo lascia il posto allo Spirito Santo, che scende sugli Apostoli in forma di lingue di fuoco e questi cominciano ad andare per il mondo a predicare parlando le lingue di tutte le genti.

A Messina la Pentecoste poteva essere un’esperienza ancor più emozionante, sì, ma decisamente traumatica. C’era l’abitudine nel Cinquecento, soprattutto nel Duomo e anche in altre chiese particolarmente capienti, d’appendere alla volta un castelletto di legno carico di razzi, con i preti conniventi o incapaci d’impedire che avvenisse la bravata.

Iniziava la messa, ch’era una messa cantata, e procedeva con la prima lettura: gli Atti degli Apostoli, che raccontavano appunto l’episodio della prima Pentecoste.

Si enunciava, come si enuncia ora, un brano della Lettera di Paolo ai Romani; e intanto si cominciava ad accendere le micce del castelletto. Insomma, la dissertazione di Paolo di Tarso sul distacco dalle cose della carne e sull’affiliazione divina letta dall’ambone, in quel momento alla gente interessava ben poco, era un inter nos fatto tra i prelati officianti e i nobili sufficientemente fuori portata da non preoccuparsi di cosa stava per accadere.
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Alla fine della Seconda Lettura, e prima del Vangelo, si cantava, come si canta ora, l’Alleluia; e le micce accese fischiavano nella loro combustione, la strana e trepidante attesa d’un fatto terribile si poteva quasi palpare.

Quanto all’episodio degli Atti letto all’inizio, più che interessare qualcosa, il pubblico sapeva che presto avrebbe potuto riviverlo sulla propria pelle, nel senso che si sarebbe ustionato (se andava bene) se avesse avuta la disgrazia di ricevere una lingua di fuoco, che tanto ambìta era stata dagli Apostoli. All’improvviso il canto dell’Evangelo veniva assordato da un pandemonio allorché la Cattedrale veniva veramente inondata dalle pericolosissime scintille ardenti dei razzi precedentemente accesi che saltavano in ogni direzione, dispensando ovunque frammenti di Spirito Santo.

A quel punto, le intricate parole del Gesù del Vangelo di Giovanni sull’avvento del Paraclito e sull’amarlo rispettando i suoi comandamenti passavano totalmente in secondo piano, si potrebbe dire che il lettore le proclamasse a sé stesso. Come se non bastasse, dagli alti finestroni venivano fatti entrare in volo stormi di colombi, tortore e coturnici, che nel caos generale bombardavano di guano il pavimento della cattedrale e le teste delle persone in fuga dallo Spirito Santo che scendeva in scintille di razzi!

Sicuramente la gente fuggiva di qua e di là, chi aveva fortuna non subiva pregiudizio, chi di meno si bruciacchiava gl’indumenti, a chi andava proprio male si prendeva qualche ustione.

La cosa più importante da evitare era di trovarsi sotto il castello ligneo, base di lancio delle lingue di fuoco, la cui fune d’attacco finiva per staccarsi dalla volta facendolo precipitare al centro della navata.

La Pentecoste a Messina era alquanto movimentata e latrice di emozioni forti per chi voleva celebrarla nel Duomo; certamente era pericolosa.

I critici hanno parlato anche di persone che sarebbero morte nella caduta del castello di razzi, ma non è certo se fosse un’esagerazione per contestare la pantomima pirotecnica o l’incresciosa verità. All’alto clero queste bravate non erano gradite.

Fu l’arcivescovo Antonio Lombardo, strenuo oppositore di tutte le tradizioni “paganeggianti” che distraevano dalla spiritualità cristiana, a proibire l’usanza del castello di razzi, sotto Ferragosto 1588 (“Constitutiones synodales illustriss.mi et reuer.mi domini D. Antonii Lombardo archiepiscopi Messan. in diocesana Synodo promulgatae die XVII mens. augusti MDLXXXVIII”); ma non riuscì certo a impedire le invasioni di flotte di columbidi e fasianidi tubanti e stridenti, che continuarono imperterrite anche sotto minacce di scomunica.

In realtà, nemmeno le scenate pirotecniche scomparvero, anzi, continuarono a essere normali anche in altre parti della Sicilia. No, non sto assolutamente proponendo di ripristinare l’usanza.
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