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In Sicilia ci sono antichi "palazzi coi buchi": perché ce li hanno (e a che cosa servono)

Avete capito bene, un palazzo pieno di buchi e, per di più, con appollaiati dentro alcuni piccioni. Sembrano frutto di un sortilegio ma avevano uno scopo importante

Francesca Garofalo
Giornalista pubblicista e copywriter
  • 7 novembre 2023

Un palazzo di Palermo

Vi è mai capitato di osservare un oggetto o sentire un profumo che vi riporta indietro nel tempo? A me capita spesso con i ricordi d’infanzia, in particolare quelli dell’asilo, di cui rimangono solo poche reminiscenze: le giostre, le lavagnette con i chiodini colorati e qualche tratto somatico di coetanei e maestre.

Ma credetemi se vi dico che di una cosa sono certa: conosco come il palmo della mia mano il palazzo di fronte alla scuola, fessura per fessura. Avete capito bene, un palazzo pieno di buchi e, per di più, con appollaiati dentro alcuni piccioni.

Il palazzo con i buchi, nel tempo, rischiava quasi di smarrirsi nella memoria come i volti di quei coetanei. Ma passeggiando per le strade di Siracusa, specie nel secondo quartiere storico Borgata Santa Lucia, mi capita di vedere altri palazzi sosia della costruzione con quelle fessure, dette nel linguaggio tecnico buche pontaie o "fori da ponte".

Identificate, dunque, con "nome e cognome", quelle cavità di forma quadrata che parevano qualcosa di astruso e frutto di un sortilegio, in realtà avevano uno scopo importante: sostenere le impalcature dei ponteggi.
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Diffuse in molte costruzioni dell’Italia meridionale, in Sicilia (Castiglione di Sicilia, Erice, Ferla, Petralia Soprana, Montalbano Elicona), Calabria (Santa Severina, Aieta) e Sardegna (Posada, San Sperate).

E anche in Toscana (Montenero) ed Emilia Romagna (Parma); queste cavità erano probabilmente già conosciute nell’epoca romana, per poi diventare molto diffuse in quella medievale, prima dell’arrivo del cemento armato s’intende. Facilmente riconoscibili nelle costruzioni in pietra, le buche pontaie venivano usate per incastrare i pali delle impalcature delle maestranze, soprattutto se le costruzioni erano molto alte.

I fori venivano realizzati sostituendo la parte finale delle travi in legno ad alcune pietre, e poi erano murate nella costruzione. A fine opera, le travi venivano rimosse lasciando, appunto, il caratteristico foro per eventuali modifiche da apportare alla struttura e solo quando si aveva la certezza di fine lavori, veniva coperto; anche se sono poche le costruzioni in cui veniva fatto il riempimento.

Per quanto riguarda le case - torri esistevano invece le buche pontaie provvisorie, con mensola in pietra per sostenere le travi di ballatoi esterni, oggi balconi, che rendevano più ampio lo spazio dove camminare.

Un metodo, dunque, usato dalle maestranze di una volta che, all’avvento di innovazioni architettoniche, diventa obsoleto fino a scomparire quasi totalmente nel Rinascimento.

Lo vediamo ricomparire (della serie a volte ritornano) nell'edilizia neomedievale dell'Ottocento, solo per poco. Ma aspetto edilizio a parte, come mai al suo interno troviamo spesso dei volatili? Le buche pontaie oltre a rappresentare quel che resta di un affascinante modus operandi architettonico, sono anche importanti luoghi di nidificazione.

Una sorta di habitat riproduttivo per piccioni e in particolare rondini e rondoni, antiparassitari naturali che in volo si nutrono di mosche e zanzare.

Chiudere, dunque, totalmente queste cavità, cosa che viene fatta spesso durante i restauri dei palazzi nei centri storici, limiterebbe la salvaguardia di queste specie che vediamo spesso volteggiare in città.

A tal proposito, esistono posizioni contrastanti: c’è chi vorrebbe la chiusura totale delle fessure, chi il loro mantenimento e chi propone la chiusura di una parte, permettendo a queste specie di sostare e nidificare.

Qualunque siano i pareri oggi, passeggiare in una città o in un borgo medievale e assistere a costruzioni con le buche pontaie, significa avere al cospetto abitazioni molto antiche, oltreché un piccolo patrimonio utile a preservare parti di biodiversità.
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