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In via Terrasanta c'è un tesoro "nascosto": ha 100 anni e il suo valore è inestimabile

Realizzato a Palermo nel secolo scorso, si trova in ottimo stato di conservazione: in molti vorrebbero visitarlo e si augurano che il bene ora venga valorizzato

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 7 settembre 2023

L'antico lavatoio di via Terrasanta (foto da Facebook di Salvatore Mazzola)

Hanno incantato i palermitani attivi sui social, negli scorsi giorni, le immagini di un antico lavatoio condominiale, sito in via Terrasanta, nello stesso isolato dove si trova la scuola Giuseppe Pitrè, all’angolo con la via Damiani Almeyda.

Qui, nei terreni che appartenevano alle Officine Meccaniche Siciliane, nel 1926 l’Istituto Autonomo Case Popolari costruì un complesso di alloggi dotato di un cortile interno e di locali ad uso di lavanderia condominiale.

La costruzione di edilizia popolare ha avuto un ruolo determinante nella configurazione dell’immagine di Palermo dall’ultimo ventennio dell’800 fino agli anni ’80 del secolo scorso.

Nell’arco di un secolo gli interventi hanno seguito logiche diverse: una prima fase ha privilegiato l’inserimento degli interventi edilizi in alcune aree del centro storico (1880-1924: primi interventi di edilizia popolare), successivamente sono stati realizzati alcuni complessi tra la città e i nuovi quartieri (1925-1945: inizio dell’attività dell’IACP), infine sono nate numerose abitazioni INA-Casa (1957-1980) in zone di periferia.
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Il progettista del complesso di via Terrasanta fu l’ingegnere Giovan Battista Santangelo (1889-1966), professionista che operò principalmente nella provincia di Palermo.

Nel capoluogo Santangelo realizzò il Palazzo Savona, il cinema Imperia, lo Stadio Littorio (oggi Renzo Barbera), il Castello Utveggio sul Monte Pellegrino e il cinema Massimo (oggi teatro al Massimo).

Quello di via Terrasanta era un complesso di 6 piani, si sviluppava intorno a una corte interna dove vi era una vasca circolare - che oggi ospita piante acquatiche e pesci rossi - vi erano sei scale e 107 alloggi in tutto.

Sia la facciata principale che quelle secondarie presentano rientranze e corpi sporgenti; le finestre si alternano con terrazzini racchiusi entro profonde nicchie.

Come in altri edifici della zona, accanto al portone di ingresso ancora oggi sono presenti dei nettascarpe in metallo: cioè dei ferri con i quali ci si poteva pulire le scarpe infangate, prima di entrare nel palazzo, perchè all’epoca le strade non erano asfaltate ma erano in terra battuta.

Al piano terra dello stabile c’erano un tempo i bagni comuni e il lavatoio, attualmente in disuso. Il lavatoio ha un rivestimento con antiche maioliche bianche e azzurre; si presentano in ottime condizioni le “pile”, ossia le vasche per i panni dove venivano inserite le tavole inclinate di legno che servivano d’appoggio per insaponare, spazzolare o risciacquare la biancheria (l’inclinazione si otteneva ponendo ai lati della tavola centrale due piccole tavole laterali).

Nella parte più profonda della lavanderia vi sono le "fornacelle", fuochi alimentati dalla legna o dal carbone, che servivano a riscaldare le grandi pentole d’acqua per lavare i panni. Un tempo lavare la biancheria era una di quelle pesanti incombenze che andava a sommarsi ai non facili lavori quotidiani.

Una intera giornata veniva dedicata a fare il bucato, di solito nei lavatoi pubblici; si lavava la biancheria in grandi vasche con acqua bollente, sapone e cenere fine e bianca. Bisognava insaponare, sfregare e risciacquare, fino a spezzarsi la schiena e ad avere rosse le nocche delle dita….era proprio una faticaccia!

Questo era uno dei motivi per cui la biancheria non veniva cambiata spesso, come avviene oggigiorno. Noi abbiamo a disposizione delle lavatrici che fanno innegabilmente tutto il lavoro, che sono a portata di mano fra le quattro mura domestiche e che sono un concentrato di tecnologia.

Cento anni fa il bucato si faceva più o meno ogni venti giorni o una volta al mese. I panni – soprattutto le tovaglie o le lenzuola ricamate - non si lavavano con grande frequenza perché si rischiava di strappare o rovinare i pezzi del prezioso corredo.

Di solito le massaie di ogni famiglia lavavano i propri panni, ma c’erano anche le lavandaie, donne che per mestiere facevano il bucato per le famiglie più abbienti (perché le signore non potevano sciupare le loro belle manine): si trattava spesso di vedove e per loro quell’umile mestiere era l’unico modo di per poter tirare avanti.

Per lavare la biancheria si usava una soluzione ottenuta versando dell’acqua bollente sopra uno strano di cenere bianca. Si metteva a scaldare l’acqua, nella “caldara”, un grande recipiente di lamiera zincata o di rame che poggiava su una griglia, sotto la quale si mettevano i pezzi di legno che, bruciando, portavano l’acqua a ebollizione.

L’acqua bollente versata sulla cenere formava una soluzione di bicarbonato di potassio (la “lisciva”) che, unita al sapone, penetrando nei panni, li rendeva bianchi e donava loro un profumo particolare e intenso. Sopra la biancheria veniva comunque disposto una sorta di telo, che aveva l’obiettivo di fungere da filtro, così la cenere non sporcava i panni. La biancheria veniva coperta da alcune assi di legno (per evitare che il liquido si raffreddasse) e si lasciava riposare in ammollo per tutta la notte .

Il giorno dopo, quando ormai l’acqua si era freddata, la biancheria veniva sfregata con sapone di Marsiglia e spazzole di saggina, poi veniva sciacquata e strizzata. Infine i panni venivano riportati a casa, dove venivano stesi ad asciugare al sole. Oggi la liscìva è tornata di moda: viene considerata un modo ecologico per lavare il bucato, che comporta sì un po’ di fatica, ma anche un bianco brillante e duraturo.

Sino agli anni ’60 del XX° secolo dunque lavare i panni era dunque un affare serio in quanto richiedeva molto “olio di gomito”. Solo con lo sviluppo economico degli anni ’60 e ’70 la lavatrice divenne un bene alla portata di tutti e il suo uso si diffuse nelle abitazioni.

Le lavanderie di Via Terrasanta vengono attualmente utilizzate come magazzini ma sono molti i palermitani che vorrebbero visitarle, per rivivere l’atmosfera del passato o che si augurano che vengano valorizzate, così come è spesso avvenuto nel caso di storici lavatoi pubblici in tutta Italia; anche se si tratta di oggetti di poco valore artistico e architettonico (salvo eccezioni), il loro valore sociale è inestimabile: hanno fatto parte della vita quotidiana di generazioni di donne e sono stati testimoni fino a tempi relativamente recenti della loro fatica, delle loro confidenze e dei loro pettegolezzi, della voce dei figlioletti che le mamme dovevano portarsi dietro…

Il lavatoio è un piccolo manufatto ma in realtà è una testimonianza concreta della vita sociale delle passate generazioni, rappresenta l’esistenza di un tempo, spesa tra lavoro e famiglia; la sua bellezza è racchiusa nella sua semplicità e nell’esser stato bene della comunità.
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