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Jaka, il rasta siciliano che educa in carcere col reggae: "Mare Fuori? La realtà è diversa"

Il noto musicista ha lavorato in diverse carceri minorili. Le fiction per lui hanno acceso i riflettori sul tema ma bisogna fare i conti con la solitudine di questi giovani

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 4 maggio 2023

Jaka (foto di Loredana Caruso)

È trascorsa qualche settimana dall’incontro, con Vincenzo Ferrera, l’attore palermitano che interpreta "l’Educatore Beppe" nella fiction "Mare Fuori", la serie che ha conquistato i giovani ed ha fatto conoscere una realtà spesso dimenticata: il carcere minorile.

Dopo quest’articolo ho conosciuto Jaka, un vero educatore, uno di quelli si confronta con centri di detenzione e di accoglienza. I lunghi "dread" non devono ingannare, non è una rasta o per lo meno non solo… "sono una Gorgone, come quella siciliana".

Nessuna etichetta, Jaka è educatore per attitudine e passione, senza averne i tratti e immagine, ma non solo, per i ragazzi è “King”. Nato e cresciuto in Sicilia, Jaka (Giuseppe Giacalone), è vissuto a Firenze, Londra, New York, Jamaica e isole Canarie.

È un compositore e autore, ha suonato e cantato nei più importanti club e festival italiani ed europei, realizzato decine di album, migliaia di concerti, collaborato con i più grandi artisti giamaicani, uno dei primi a fare Reggae e Rap in dialetto e italiano negli anni 80.
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Speaker radiofonico da 33 anni su Popolare Network, Jaka è il “Beppe di Mare Fuori” con l’Associazione Rock 10 e lode. «Sono un educatore che lavora con testi e suoni, la musica è una catarsi, liberazione, guarigione, cura», afferma. Coinvolge con la sua energia persone sotto il palco, come i giovani detenuti degli IPM.

La musicoterapia è risaputo che influisce sul battito cardiaco, la respirazione, diminuisce lo stress e alza il livello di consapevolezza, condizione necessaria in contesti di disagio, come quelli che incontra nelle carceri, nelle case-famiglia, nei centri di recupero per tossicodipendenti, o nei centri di accoglienza per immigrati.

Parlare della situazione dei ragazzi reclusi nei carceri minorili, non è più tabù, la fortunata fiction, ha sdoganato quest’argomento, avvicinandoci a questi giovani che troppo facilmente abbiamo liquidato come delinquenti, «è stata a lungo considerato discarica sociale, l’ultima frontiera prima dell’abisso, spesso senza speranza» come mi ricorda Jaka.

Da un rapporto dell’Associazione Antigone, riportata da Alessio Scandurra, risulta che a dicembre 2022 negli Istituti Minorili erano detenuti circa 400 tra ragazzi e ragazze, di cui 206 minorenni e 194 tra i 18 e 24 anni.

In Sicilia vi sono l’IPM "Malaspina”, nella villa settecentesca "Palagonia" a Palermo, uno ad Acireale e a Caltanisetta, a questi si aggiungono le Case-Famiglia. I reati sono soprattutto quelli contro il patrimonio, meno quelli contro la persona, contro lo Stato, l’incolumità pubblica, la famiglia, ecc.

Questo potrebbe far pensare che i ragazzi che finiscono in cella sono quelli che commettono i reati più gravi, ma non è così specialmente al Sud, dove è più facile entrare negli IPM rispetto ai centri alternativi di recupero, spesso impossibilitati a ricevere nuovi ingressi.

Jaka ha lavorato come educatore in diverse carceri minorili e contesti, dove il disagio è una realtà quotidiana. Prima esperienza negli anni '90 nelle scuole elementari, poi nei quartieri a rischio della periferia di Firenze, dove con la “COOP Cat” hanno realizzato dei laboratori di musica in strada. I primi a usare l’Hip Hop come strumento educativo.

Dopo queste esperienze è arrivata quella nelle carceri: «Un’istituzione per certi versi aberrante specie riguardo ai ragazzi, dove è difficile tenere in piedi umanità e gentilezza».

La musica nelle carceri con lui diventa "Maieutica", mi dice, canale di comunicazione che aiuta a tirar fuori quello che i giovani hanno dentro.

Ha ideato un format applicabile non solo nei carceri minorili, ma anche in tutti in quei contesti difficili dal punto di vista umano. Nel Malaspina, precisa, che la maggior parte dei ragazzi sono siciliani al contrario di quanto si potrebbe pensare considerando il numero dei migranti che arrivano sull’Isola.


Con tristezza aggiunge «in queste strutture difficilmente si riesce a rieducare, il sistema punitivo incattivisce e deprime. È difficile il lavoro di chi cerca di promuovere azioni indirizzate al recupero, dove il primo passo che un giovane deve compiere è riconoscere la propria responsabilità individuale, senza scaricare tutto sul quartiere, società e famiglia».

Gli chiedo quali sono i momenti di esaltazione e di angoscia: «La delusione più grande quando si lavora in queste situazioni è scoprire che non si può salvare nessuno; la gioia più grande è scoprire che, se qualcuno vuole, può salvare se stesso. In contesti difficili non puoi fare il missionario, è l’approccio sbagliato, devi considerare che puoi mettere un seme che se adeguatamente innaffiato potrà dare frutti, devi riuscire a insegnare a prendere in mano la propria vita».

Gli chiedo cosa pensa della fiction: «Bisogna separare la finzione dalla realtà, l’immagine "romantica" non corrisponde a quello che si vive, stare chiusi in gabbia come un animale è un’altra cosa, è un dramma».

Ricorda che il carcere è un luogo di solitudine, lo dimostra l’alto numero di suicidi. Effettivamente deve essere terribile vedere alcuni ragazzi con le lenzuola di carta per evitare che possano togliersi la vita: «La serie ha avuto il grande merito di aver fatto scoprire un mondo dimenticato».

Effettivamente la realtà rispetto a "Mare Fuori" è diversa, non esistono carceri misti, le sezioni maschili e femminili non possono svolgere attività comune, e i detenuti più giovani sono separati da quelli adulti.

Jaka è un padre, innamorato delle sue due ragazze, innamorato della sua Sicilia, «una delle terre più generose e belle del mondo, ma non perfetta; un mondo ideale non esiste, dobbiamo costruirlo dentro di noi, deponendo le armi contro noi stessi e contro gli altri».

La forza che sprigiona è coinvolgente, ascoltandolo si pensa che sia possibile ricostruire speranza e futuro, dove la consapevolezza è il primo mattone.
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