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La collinetta del Calvario e le tre Croci: quando Racalmuto fu "punita" con un anno di siccità

Tutto cominciò quando, nell’aprile del 1881, in provincia di Agrigento, il sindaco di Racalmuto ordinò ai muratori di togliere le tre Croci sulla collinetta del Calvario

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 6 ottobre 2021

Il castelluccio di Racalmuto

Tutto cominciò quando, nell’aprile del 1881, in provincia di Agrigento, il sindaco di Racalmuto, l’avvocato Gioachino Savatteri ordinò ai muratori di togliere le tre Croci sulla collinetta del Calvario, il sito dove ogni anno, da tanto tempo, si tenevano i riti della Settimana Santa.

Tutto doveva avvenire in silenzio e nell’oscurità della notte e alla fine si portarono le Croci nella Chiesa della Madonna del Monte. L’ordine era arrivato dall’alto ed anche il l’arciprete aveva dovuto accettare la decisione.

Proprio da lì, cioè per l’antica collina del Calvario, doveva passare la strada che portava dal paese alla stazione dei treni. Il Calvario, quindi, andava abbattuto. Ma quando la gente di Racalmuto non vide più le Croci, in tanti uscirono per strada, pure con i bambini, e tutti andarono a riprendersi le Croci.

A questo punto pure l’arciprete, don Ignazio Tirone, ci ripensò e nove muratori ripiantarono le tre grandi Croci sulla collina. Dopodiché in trecento (dicono le cronache del tempo) rimasero lì a difendere quelle Croci. E ci misero pure due bandiere nere per significare sicuro pericolo di morte per chi si fosse avvicinato.
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Il Sindaco giocò d’azzardo e andò a rassicurare che le Croci sarebbero state sistemate altrove e a spese del Comune. Ma
non vi fu verso: la gente diceva che erano secoli che il Calvario era lì perché quello era un posto miracoloso e un altro non andava bene. Tante volte nei tempi di siccità erano andati lì a pregare e sempre poi era tornata la pioggia salutare che Dio mandava dopo quelle preghiere.

Il Sindaco allora telegrafò al prefetto di Girgenti e quello diede disposizione perché la forza pubblica intervenisse a sgombrare il Calvario e a far rispettare la legge e l’autorità.

Il giorno dopo, cioè il nove aprile del 1881, la gente di Racalmuto accolse a sassate le guardie e i soldati della 27° fanteria, arrivati da Girgenti. I soldati ebbero l’ordine di non rispondere alle provocazioni, al momento. Ma il secondo giorno (dopo che anche la notte la gente era rimasta a presidiare il Calvario, quando il delegato di P.S. Russo arrivò con alcuni soldati per abbattere le croci “abusive”, ecco cosa avvenne, secondo il verbale dei Carabinieri che abbiamo trovato all’archivio di Stato di Agrigento:

“Oltre trecento cinquanta persone stavano in vicinanza della Chiesa del Carmine. Improvvisamente con grida e gettando dei sassi cercarono avanzarsi e due colpi d’arma da fuoco credesi di revolver o pistola, partirono contro il maresciallo Cesarini perché coraggiosamente opponevasi.

Una palla rasentò il viso del maresciallo che visto il pericolo grida per avere rinforzi ed intanto, ripugnandogli di far uso delle armi, cercare con gesti e con fermo contegno trattenere quegli sconsigliati… I colpi continuarono intanto da parte dei rivoltosi e per ordine del sottotenente sig. Bertoglio qualcuno della forza sparò in aria la propria arma, ma la folla fanatica avanzava sempre più” (archivio di stato di Agrigento, inventario 28, fascicolo 77).

Ma dalla folla partirono altri colpi ( se ne contarono una quindicina) e allora la forza pubblica, per legittima difesa, rispose al fuoco.

Due giovani caddero e allora “vi fu chi fuggiva impaurito e chi tentava di attaccare la folla alle spalle, mentre altri urlavano eccitando i compagni alla resistenza”, mentre la forza di polizia faceva 13 arresti. La folla sgombrò la collina e nessuno più si vide attorno alle tre Croci.

Quel mattino di fuoco si concluse con due feriti gravi, tra i rivoltosi (Di Giglio Salvatore, di anni 20, zolfataro; Alfano Gaetano, di anni 24, contadino), mentre le forze dell’ordine rimasero illese. Seguì nelle ore seguenti per tutto il paese una pace surreale, mentre i soldati continuavano a cercare nelle case gli indagati e partivano per le carceri di Girgenti i primi arrestati.

Il mattino dopo le Croci non c’erano più sulla collina del Calvario. Al loro posto sventolava il tricolore. La patria era
salva. I soldati ebbero la gratifica. L’arciprete venne trasferito. Molti imputati, lasciarono le carceri e tornarono a casa
perché le prove contro di loro non si ritennero sufficienti. Altri ebbero lievi condanne. Le croci vennero portate alla Chiesa del Carmine e alla Chiesa della Madonna del Monte.

Pochi giorni dopo il tumulto, si fecero le funzioni della Settimana Santa e la gente portò le tre grandi croci in processione. L’anno dopo il nuovo calvario venne ricostruito in un altro posto, poco fuori il paese. A Racalmuto si ebbe un anno di siccità.

Una poesia dialettale del tempo, “La canzuna di la Santa Cruci”, ricorda la rivolta e nei suoi versi conclusivi così descrive lo scontro.

Tutti ristaru curaggiusamente.
Nun putiennu sparari a la cristianitati
lu Marasciallu nun potti dari frunti
e s’avvirsatu versu lu tinenti.

E lu tinenti cumanna cumanna
avanti dammu fuocu battagliuni
e tutti misira baiunetta ’n canna
e currieru p’ammazzari li pirsuni.
Unu fu acchiapatu nni lu grazzu
l’autra nni lu piettu fu firutu,
chiddu chi l’acchiappà fu canusciutu
dicianu ch’era statu lu surdatu!
Pi miraculu di Diu nuddu ha murutu,
comu stu malu esempiu s’ha datu,
tuttu lu puopulu grida aiutu aiutu
ca tuttu Racarmutu è cunsumatu,
e chiddu figliu chi ci avia la mamma,
chi terribili turturi,
ora ci l'hannu a dari la cunnanna
forsi ca cci pinsassi lu Signuri!


(sintesi: il tenente comandò l’assalto con le baionette e ferirono alcuni dimostranti, ma non vi furono morti).
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