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Le estati felici in colonia a Ficuzza: storie sul magico (e abbandonato) regno dell'infanzia

Adesso è uno spettrale edificio abbandonato, ma per tanti anni la struttura montana ha fatto la felicità di diverse generazioni di bambini, oggi adulti. Ecco i loro ricordi

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 20 giugno 2022

La colonia estiva a Ficuzza

Tra le strutture in desolante e spettrale stato di abbandono, dislocate su tutto il territorio nazionale, rientra l’ex colonia montana di Ficuzza, risalente ai primi anni ’50, dove i figli dei dipendenti delle Ferrovie potevano trascorrere qualche spensierata settimana estiva. Eppure, ai suoi tempi d’oro, questa colonia ha significato qualcosa per più di una generazione di bambini.

"Le colonie climatiche” nacquero a partire dagli anni ’20 del Novecento, nell’ambito delle numerose iniziative di politica sociale messe in campo dall’Azienda delle Ferrovie dello Stato e alla fine dell’anno 1930 la gestione venne affidata all’ OPAFS (Opera di previdenza ed assistenza per i ferrovieri dello Stato).

Il patrimonio immobiliare, inizialmente costituito da quattro o cinque immobili ricevuti dall’ex associazione nazionale di categoria, andò via via accrescendosi, sino a raggiungere l’imponente consistenza di 18 immobili: 12 colonie marine e 6 montane, tra cui Ficuzza.
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Le colonie FS ospitavano in tutta Italia, nei mesi di luglio e di agosto, migliaia di bambine e bambini (circa 15000) tra i sei e dodici anni, figli e orfani di ferrovieri in servizio o in pensione, per un periodo che, nella maggior parte dei casi, si protraeva da due settimane a 1 mese.

Con treni o corriere appositamente organizzate, i bambini raggiungevano le colonie dove venivano, poi, suddivisi in gruppi in base all’età e agli interessi, così da favorire la socializzazione, intento principale della permanenza in colonia.

I giovanissimi ospiti erano affidati alle cure di personale (selezionato dall’OPAFS) che forniva “un’affettuosa assistenza e materna sorveglianza”: in ogni colonia vi era una Direttrice, coadiuvata da una segretaria e dalle dirigenti dei vari servizi (cucina, guardaroba, ecc.) che sovraintendeva all’andamento della colonia.

L’assistenza sanitaria era affidata a un medico, e a una o due infermiere. La sorveglianza era esercitata dalle capo gruppo e dalle vigilatrici, che dovevano essere insegnanti diplomate.

Il vitto era sano, copioso e continuamente controllato: fa sorridere nella nostra epoca in cui l’obesità infantile è una problematica in forte crescita, l’affermazione del giornalista Mario Resta che nel 1956 con una punta di soddisfazione scriveva su un giornale aziendale: «i bambini ospitati aumentano generalmente di peso, in misura che varia da 1 a 3 chilogrammi».

La nostalgia per la lontananza dalla famiglia durava un paio di giorni appena, poi la vita nelle colonie trascorreva serena e gioiosa tra ginnastica, bagni d’aria e di sole, giochi comuni, passeggiate, spettacoli di fine anno, proiezioni di film e recite.

I bambini partecipavano con entusiasmo e interesse a tutte le attività: la cerimonia dell’alzabandiera al mattino e l’ammaina bandiera alla sera, il richiamo irresistibile dei giochi all’aria aperta, le preghiere mattutine, i turni per lavarsi, la fila indiana per andare in refettori con le vigilatrici armate di fischietti.

La colazione con il latte e l’orzo, il pranzo, il riposo, la merenda e la cena che scandivano le giornate. Si piangeva solo l’ultimo giorno, per il dispiacere di dovere andar via, tra struggenti “addii” o “arrivederci al prossimo anno” e quando si tornava a casa si esclamava solitamente con il broncio: “La colonia dura troppo poco!”.

Oggi molti di quei bambini e di quelle bambine che hanno vissuto estati felici nella colonia del bosco di Ficuzza sono genitori e addirittura nonni; con nostalgia ripensano ai ricordi belli di un’infanzia spensierata, piena di amici e di giochi. Ascoltando i racconti di chi ha vissuto quell’esperienza si sente fortissima la nostalgia.

Il signor Giuseppe, (71 anni) racconta di aver trascorso in colonia a Ficuzza 4 estati, dal 1956 al 1961, l’ultimo anno suo padre non lo mandò, per punizione, perché il ragazzo (che frequentava già la prima media) era stato rimandato in francese.

«Il 2 Luglio del 1956 andai in vacanza da solo, a sei anni neanche compiuti, presso la colonia montana delle FF/SS. Quella era la prima volta che mi allontanavo dalla mia famiglia. L’autocorriera (che partiva da Via Torino) ci condusse a destinazione dopo un interminabile viaggio, su una strada tortuosa e polverosa.

Nell’assolato piazzale di Ficuzza, sotto l’imponente mole della Rocca Busambra, ci venne ad accogliere un sacerdote, il caro e buon padre Milazzo. Il mio primo incontro con il Bosco della Ficuzza fu indimenticabile: mi sembrava di essere in paradiso e mi sentivo libero. Non avevo mai visto un bosco, nemmeno in televisione: anche perché all’epoca c’erano pochissimi apparecchi televisivi (in bianco e nero) e chi poteva permetterseli? La vista della Rocca Busambra, con la sua imponente e maestosa mole, m’intimoriva e nello stesso tempo mi affascinava».

All’epoca il soggiorno durava 1 mese e maschietti e femminucce dormivano in cameroni separati: c’erano 2 camerate femminili e 6 maschili. Il signor Giuseppe ricorda che spesso si proiettavano dei film nel locale sotterraneo dell’edificio; che in refettorio a colazione c’erano pane e latte o pane e cotognata; che il mercoledì a tavola c’era il dolce e la domenica a merenda il gelato e che al mattino veniva distribuita la posta: «Non c’erano telefonini per comunicare con i genitori, l’unico mezzo erano delle cartoline gialle, senza immagini, che scrivevamo o ricevevamo».

Il signor Giovanni (63 anni) è stato a Ficuzza nel 1964 a 6 anni e nel 1969 a 11 anni. «Bel periodo…» dice. «Il primo prato l’ho conosciuto a Ficuzza. Ricordo ancora gli scherzi che facevamo agli spioni: il sacco e le cicale nel letto. Ricordo anche che in colonia ho visto il primo campo di calcio con l’erba e i sedili di legno per gli spettatori, il sapore del gelato alla banana e del vino che rubavo dal fondo dei bicchieri delle vigilatrici, quando sparecchiavo e mettevo a posto le sedie. Ricordo il signor Cianciolo, una sorta di guardiano e factotum sempre disponibile, che guidava il pulmino; ricordo il bosco che mi affascinava e mi spaventava al tempo stesso, soprattutto perché le vigilatrici per paura che ci avventurassimo fuori dalla struttura ci terrorizzavano con paurose storie di lupi e animali feroci che si nascondevano tra gli alberi, di notte o negli anfratti di Rocca Busambra».

Il signor Giovanni ricorda anche il canto che accompagnava l’ammaina bandiera, compito assegnato al cosiddetto “alfiere”: «Discendi tricolore a riposare tra i morti/ che per tuo amor son morti./ Lo sguardo di Dio protegga la Patria. Riposa tranquillo, oh caro vessillo».

Se nei racconti degli ex bambini degli anni ’50 e ’60 emerge prepotentemente il senso di libertà, dai racconti dei ragazzini degli anni ‘80 e ‘90 si comprende che l’esperienza della colonia incoraggiava e sviluppava in molti il desiderio di autonomia.

Anna Zora, classe 1979 è stata in colonia negli anni’80, un anno a Gambarie in Calabria, un anno in Sardegna e due anni a Ficuzza. Mi racconta che la colonia di Ficuzza è rimasta attiva fino al 1992/93 e che il pullman per Ficuzza partiva dalla stazione centrale di Palermo.
Bambini e bambine dormivano insieme, nelle grandi camerate e anche i servizi erano in comune, a parte le docce che si trovavano nel locale sotterraneo e di cui i bambini potevano usufruire a giorni alterni. Le vigilatrici si chiamavano “educatori” o “educatrici”.

Si facevano molte attività sportive o laboratori (pittura su stoffa, su ceramica, realizzazione di murales…) e anche i giochi erano spesso strutturati in mini tornei. Niente televisione, ma tanta voglia di stare insieme e divertirsi.

Durante il riposino pomeridiano obbligatorio, non dormiva mai nessuno e si combinavano scherzi e dispetti, se ne facevano di tutti i colori nelle camerate. «Mi piaceva soprattutto far parte della redazione e scrivere per il giornalino che si stampava alla fine del soggiorno, che durava tre settimane» dice Anna.

«A volte si organizzavano anche delle gite - aggiunge - a Marsala, a Selinunte. La sera dopo cena c’erano i canti a squarciagola accompagnati dalla chitarra. C’era un unico telefono e potevamo solo ricevere chiamate dai familiari. La prima volta che sono andata in colonia avevo sette anni, ero piccola e un po’ spaventata, non conoscevo nessuno. Ero una bambina molto timida. In colonia ho imparato a essere autonoma, ad acquisire sicurezza, a essere più socievole ed estroversa. E’ stata un’esperienza formativa importante».

La gioia e la spensieratezza della colonia sono oggi solo un pallido ricordo: «Ho visto di recente - prosegue Anna - le immagini della struttura ormai abbandonata e vandalizzata: i variopinti murales che ho realizzato con le mie mani insieme a tutti gli altri ragazzi da anni sbiadiscono lentamente sotto il sole. Questa cosa mi ha fatto proprio male, è un grande dolore».

Purtroppo sono tante le colonie estive in disuso. Il fotografo Fabio Gubellini ne ha immortalato diverse, con l’intento di sensibilizzare alla valorizzazione di questo importante patrimonio architettonico e con la speranza che la maggior parte di questi edifici possa essere riqualificato, secondo criteri che rispettino la destinazione d’uso per i quali erano stati concepiti.
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