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"Che ci faccio in Cina", riflessioni d'occidente

  • 19 giugno 2006

“Che ci faccio in Cina” (Dario Flaccovio Editore, 2006, pp. 267, euro 14,00) di Serena Brugnolo, ha un titolo invogliante che sembra promettere di condurci per mano dentro una realtà per certi aspetti così lontana e per altri così vicina. Non si tratta di un romanzo, bensì di un lungo racconto-diario di un viaggio-esplorazione fatto negli anni novanta, in due diversi periodi, da una ventenne d’Italia nella distante Cina. La nostra ragazza senza nome fa partire le sue tracce da una Cina di provincia, rurale, dove le necessità elementari di sussistenza, come acqua, scarpe e degli stracci per coprirsi, sono difficili da procurarsi.

Lo Yunnan, di questa regione stiamo scrivendo, è un crogiolo di popoli, “costretto” verrebbe da dire, tra Tibet, Birmania e Laos, il cui clima afoso e senza vento sembra imprigionare in una cappa plumbea qualsiasi idea di fuga. Visi vecchi di mille anni hanno gli uomini della frontiera cinese, che in aperta contraddizione col proprio isolamento ascoltano rapiti gli ottimisti documentari di regime che passano in TV. Televisione di partito che sparge letizia e sorrisi a piene mani, come se la Rivoluzione culturale maoista non fosse stata sepolta un ventennio fa.
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La seconda tappa del libro è Pechino, umida e grigia come ce la si potrebbe aspettare, in cui l’eco del totalitarismo è rappresentato dalle facce serie ed inespressive dei soldati inconsapevoli della propria ovvietà. È a questo punto che la protagonista, descrivendo la Città Proibita con i suoi quartieri alveare, le zone benestanti con le villette a due piani, i grandi alberghi e i McDonalds, si produce in una riflessione densa di smarrimento che pensiamo rappresenti il vero nucleo del libro: «Pechino mi sembrava una brutta copia del Veneto industriale, con più gente in bicicletta e troppi fast food. Possibile che avessi fatto diecimila chilometri per scoprire che il mondo è uguale?».

Il volume è anche questo, un allontanamento dell’autrice da una deriva irritante per cercare qualcosa di impalpabile e ignoto nelle speranze e assolutamente urgente da inseguire. Ma c’è dell’altro: un viaggiare on the road, ricco di incontri ed episodi a volte amari, a volte comici ma che comunque “odorano” di vita. C’è spazio un po’ per tutto, dall’indagine socio-antropologica, che a dire il vero è piuttosto spietata sulla Cina e sui cinesi, a un tentativo di riversare “di passaggio” sul racconto introspezioni personali da un lato e cenni storici dall’altro, che gioco-forza risultano superficiali e un po’ noiosi.

Adesso proviamo a forzare un giudizio: ci resta il forte dubbio che l’autrice del romanzo, che effettivamente sin dal titolo prende le distanze dalla terra d’oriente, ci narri con la metafora del viaggio il malessere della sua protagonista. Come non pensare che il “Che ci faccio in Cina” di Serena Brugnolo non richiami un campione d’irrequietezza come il più volte citato Chatwin di “Che ci faccio qui?”. Irrequietezza e insofferenza che porta la giovane ad avere pregiudizi un po’ per tutto, tanto da farcela sentire a volte, lo ammettiamo, un pizzico irritante.

La Cina rurale e provinciale, l’opprimente Pechino, il patrimonio artistico della Via della Seta, megalopoli come Hong Kong e Shanghai trasudanti tecnologia e ricchezza impersonano in aperta contraddizione fra loro le diverse facce della nazione. Rivelatrici per un occidentale come la Brugnolo (insomma ,è lei la protagonista del libro), di una realtà che tristemente conosce. Il senso di “Che ci faccio in Cina”, dunque, può essere compiutamente rappresentata da questa frase che argutamente è stata messa sulla quarta di copertina: «Nella testa mi giravano sempre le stesse domande: se i cinesi vogliono essere come me, io che cosa voglio? Assomigliare a loro che vogliono essere come me? O voglio essere diversa?».

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