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“E ridendo l'uccise”: trame sanguinarie nei palazzi di corte

  • 18 luglio 2005

E ridendo l’uccise
Italia, 2004
Di Florestano Vancini
Con Manlio Dovì, Sabrina Colle, Ruben Rigillo, Giorgio Lupano, Carlo Caprioli, Vincenzo Bocciarelli, Fausto Russo Alesi, Marianna De Micheli

“Scherzò con lui la morte/ e nel transito con lui un pezzo rise, / di poi scherzando e ridendo l’uccise”. Autore di questi versi è Antonio Cammelli detto il Pistoia (1440 – 1501 o, come sostengono altre fonti, 1436 – 1502), uno di quei poeti minori vissuto nella seconda metà del Quattrocento che, finito in disgrazia, vagò per tutte le corti d’Italia concludendo, infine, la sua vita in miseria. Un poeta dalla rima giocosa che ha saputo ben descrivere la vita di corte, una delle fonti d’ispirazione per il ritorno dietro la macchina da presa, dopo ventiquattro anni d’assenza, di Florestano Vancini con il suo “E ridendo l’uccise”, ambientato nella Ferrara del 1505. L’ultima volta di Vancini era stata “La Piovra 2” per la televisione (la migliore della famosa serie, la più intensa) e adesso, andando contro tutte le leggi di un italico mercato che produce fiction e cinema minimalista di pessima fattura, il regista ferrarese realizza un film d’altri tempi, a sfondo storico, che ha come nobile spunto letterario “La congiura di Giulio d’Este” di Riccardo Bacchelli. Quella raccontata da Vancini è la Ferrara del Rinascimento, il nostro leggendario periodo culturalmente più rigoglioso, quando Ludovico Ariosto (che nel film ha il volto di Fausto Russo Alesi) stava lavorando al suo celebre poema, “L’Orlando furioso”, e quando Michelangelo Buonarroti, con la sua “Pietà”, si apprestava a regalare al mondo uno dei suoi capolavori immortali.

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Ma quello era anche il periodo di fosche e sanguinarie trame nei palazzi di corte, come ci narra questo film. Siamo dunque nei meandri della corte degli Estensi, pochi mesi dopo la morte di Ercole d’Este, il duca che portò la città di Ferrara al suo massimo splendore. Dopo alterne vicissitudini, tocca ai suoi quattro figli dividersi il potere. La scena d’apertura che inquadra alcuni bambini spensierati che giocano come fanno tutti i bambini, è un immagine di quiete che ne precede altre di tempesta. A corte, si scatenano gelosie tra i quattro rampolli, anche per colpa di maliziose donzelle che, allora come oggi, attizzano i fuochi. E così, durante una festa, il giovane cardinale Ippolito (Vincenzo Bocciarelli) viene rifiutato dalla bella Angiola (Victoria Larchenko) che invece si concede al fratello Giulio (Giorgio Lupano), nato al di fuori del matrimonio. Ippolito e Giulio si incrociano durante una passeggiata a cavallo, e la gelosia scatena l’ira del cardinale che finisce per farlo sfregiare. L’altro fratello, il duca Alfonso (Ruben Rigillo), sposato con la fatale Lucrezia Borgia (Marianna De Micheli), è il nuovo alleato di Ippolito. E così, Giulio e Ferrante (Carlo Caprioli) possono covare la loro vendetta contro i due fratelli traditori. Tutta l’intricata vicenda viene filtrata attraverso un giullare di corte, Moschino (Manlio Dovì), fra l’altro testimone delle efferatezze che venivano perpetrate ai danni del popolo. Per guarire dalla brutta ferita, Giulio ordina a Moschino di andare a recuperare da un tale un unguento miracoloso. Durante il viaggio di ritorno, il giullare si accorge che un capitano dell’esercito sta facendo impiccare dei contadini che avevano rubato alcuni fagiani del duca. Con un inganno, Moschino, legge una finta missiva e così riesce a liberare una donna di nome Martina (Sabrina Colle) portandosela via.

Ma la via del ritorno è ancora irta di pericoli, quando alcuni sudditi vinti dalla fame, rubano il cavallo di Moschino con l’intenzione di ucciderlo e mangiarlo. E naturalmente, anche l’unguento non riuscirà ad arrivare a corte. Durante il corso della vicenda la giovane Martina diventerà una cortigiana fino ad entrare nelle grazie di una delle tante corti dell’epoca. La vendetta di Ferrante e Giulio non riuscirà a compiersi, perché i due verranno scoperti e condannati a vita dal cardinale Ippolito. Che fine farà l’umile e saggio Moschino non lo diciamo, anche se la soluzione è suggerita dall’evocativo titolo, e non è comunque difficile da immaginare. La macchina da presa di Vancini si sofferma con grazia e con misura a descrivere la quotidiana brutalità nella Ferrara di quel periodo: basti per tutti, la scena della decapitazione che documenta come, oltre al taglio della testa, venisse perpetrato lo scempio del corpo della vittima, poi esposto ai quattro venti. E’ la violenza della Storia, quella che già Vancini aveva descritto in uno dei suoi film migliori, il risorgimentale “Bronte”, raccontando della Sicilia garibaldina. “E ridendo l’uccise” diviene dunque una lezione di stile dal sapore antico, un affresco cinematografico che potrebbe essere usato da certi autori made in Usa per imparare come vanno fatti i film in costume (merito anche delle scenografie di Gian Tito Burchiellaro e i costumi di Lia Morandini). La fotografia di Maurizio Calvesi ci regala gli aspri colori di una Ferrara ricostruita in Jugoslavia. Notevole il commento musicale di Ennio Morricone, tra madrigali e sublimi sonorità di un’epoca sfarzosa, crudele e lontana.

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