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Fichi e fichi d’India, la storia nelle nostre tavole

  • 23 ottobre 2006

Senza citare la Bibbia, Geremia, addirittura Buddha, che sotto un albero di fico ebbe l’illuminazione, senza riferire le recenti scoperte, che attesterebbero la sua coltivazione già undicimila anni fa, dobbiamo notare che questo frutto ha avuto e continua ad avere un posto nella storia e nell’immaginario collettivo che pochi detengono. Ha stuzzicato la fantasia di molti artisti, diventando l’emblema della dolcezza femminile; è il simbolo di cose povere che rendono tanto, come il modo di dire del titolo evidenzia.

Il frutto bianco, una volta aperto, regala un’emozione di colori caleidoscopica. Le screziature, dal rosso al bordò, al giallo, rallegrano e il sapore avvolgente, intenso, che si sposa bene con il cascavaddu ‘n pietra e smorza l’aggressività del canestrato, incanta. È ottimo nell’insalata, poco dietetica, preparata con rucola, scaglie di parmigiano, sale, pepe, qualche chicco d’uva e una manciata di gherigli di noci, condita con olio e qualche goccia di limone; o con quella, tutta siciliana, fatta con l’indivia, la porcellana, sempre più rara, il caciocavallo stagionato, pistacchi e un po’ di melograno, olio, sale, pepe e sempre qualche goccia di limone.

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È ottimo appena colto dall’albero, gocciolante del suo latte appiccicoso, o fresco di frigorifero, accompagnato da un bianco frizzantino e un vassoio di prosciutto dei Nebrodi. Provatelo su una fetta di pane di paese, ammorbidita con l’olio extravergine, coperta dal pesce spada affumicato, decorata da una fettina di limone e una spolverata di caciocavallo. È buonissimo anche secco, presentato a mo’ di scrigno della polpa di una noce o ridotto in conserva, ripieno di quei meravigliosi dolci, i buccellati, dall’equilibrio instabile, che, proprio per questo, richiedono l’utilizzo di ingredienti di prima qualità.

Ma c’è anche un altro fico, quello d’India, chiamato così, perché si credeva che fosse originario dell’Asia e che fosse stato introdotto in Sicilia dai Saraceni intorno all’800. In realtà proviene dal Messico. Addirittura gli antenati degli Atzechi conoscevano questo frutto e lo tenevano in grande considerazione per le proprietà diuretiche e depurative. Dentro una buccia carnosa e piena di spine si nasconde una polpa colorata, dolce e aromatica, considerata la carne dei poveri. Vengono talvolta conditi con cannella, zucchero e limone, ma secondo me sono buonissimi così, nudi e crudi, nature, freschi, serviti su un vassoio messo in frigorifero per qualche ora.

In Sicilia sono tre le varietà coltivate: i "bastardoni", gli "ariddari", i "sanguigni". Le zone di maggior produzione sono l’agro di S. Cono, il versante nord occidentale dell’Etna, l’agro di S. Margherita Belice. Nella parte orientale dell’isola sono utilizzati per la preparazione di confetture, liquori. Anche la mostarda è squisita. La lavorazione è un po’ cummattusa. Dopo aver messo i fichi d’India in una bacinella piena d’acqua per un’ora, per eliminare le spine dalla scorza, si raccolgono con un mestolo, si sciacquano e si sbucciano. Si tagliano a pezzi e si cuociono in un tegame. Quando la polpa è sfatta, si passa a setaccio, per eliminare i semi, e si lascia raffreddare ottenuta.

Per ogni kg di crema si aggiungono 400 gr di farina, 200 gr di zucchero, 50 gr di cioccolato e un pizzico di cannella. Si amalgama bene tutto e si mette sul fuoco. Appena il composto si addensa, lo si versa nelle forme di creta, quelle per la cotognata, che vengono sistemate al sole. Quando il lato esposto sarà asciutto si girano le formette e si sistemano, sempre al sole. Una volta pronte si avvolgono nella carta oliata e si conservano. Le nostre nonne, maestre della medicina naturale ed esperte dell’economia familiare, utilizzavano anche il decotto di fiori di fichi d’India per decongestionare reni e alleviare l’attività epatica, favorendo l’espulsione dei calcoli. Unica controindicazione: i problemi intestinali che possono verificarsi dopo un consumo abbondante dei frutti. Perciò godeteveli, ma con parsimonia.

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