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I precari come Ercole: Li Causi racconta l'università "riformata"

  • 27 marzo 2006

Precariato, frustrazione dei giovani, flessibilità, lavoro a progetto, è proprio giunto il momento in cui si “giocano le carte”. Con le elezioni ormai alle porte infatti le parole prima elencate sono sulla bocca di tutti, come se improvvisamente ci si fosse accorti della deriva socioeconomica nella quale da anni ci siamo arenati. Sarà, ma c’è ancora chi sente il senso di responsabilità di esser parte dell’ingranaggio, e di poterlo essere in maniera ancora più attiva: Pietro Li Causi ci racconta il precariato che approda all’università senza aver “sostenuto nessun esame”, ma “raccomandato” dal sistema, e lo fa scrivendo “I decreti, le riforme (ed Ercole)- Autobiografia in forma di saggio sull’università” (Navarra Editore, 8 Euro). L’università italiana non è di fatto rimasta immune al nostalgico ritorno del lavoro a cottimo, ma al suo interno ha trovato spazio la “riforma”, quella della Moratti, quella innovativa che portato la novità di poter essere anche definiti “docente a contratto di Cultura latina dell’università di Palermo”. E' anche questo il ruolo di Li Causi che, raccontando il suo quotidiano, spiega ai non addetti ai lavori l’iter tortuoso di una parte del «sottoproletariato intellettuale italiano» in attesa di una certezza lavorativa (magari un contratto a tempo indeterminato?). L’autore vive sulla sua pelle la condizione da lui definita “ibrida” di chi ha ricevuto un assegno di ricerca, che non risulta essere né una borsa di studio né un vero lavoro, ovvero quello che, per non esser troppo pretenziosi e forse anche “per non dimenticare”, prevede ancora uno stipendio fisso. L’assegnista infatti, solo dopo anni di sperate riconferme del suo ruolo potrà nuovamente sperare di superare il concorso per diventare ricercatore. In attesa del miracolo però, il protagonista di questa autobiografia in forma di saggio può sempre far riferimento agli introiti derivanti dalla sua esperienza di docente a contratto, precario e sempre in attesa di un accredito su coordinate bancarie, che naturalmente verrà elargito solo dopo aver stabilito che «il compenso è variabile di facoltà in facoltà in base al budget disponibile (in alcuni casi del tutto irrisorio o addirittura inesistente) soltanto per le ore effettive di insegnamento».

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Lo scrittore rimarca infatti che il resto del lavoro, quello con i tesisti e con gli studenti durante le ore di ricevimento, viene considerato «prestazione volontaria e gratuita». Fra pagine di parole in cui non c’è rassegnazione ma voglia di fare, emerge un autore che crede nel suo lavoro, ma che rimprovera la scarsa attitudine all’azione dei colleghi altrettanto precari auspicando ad una possibile “controriforma”, necessaria per non cedere agli inganni di chi definisce il precario un autonomo, un “lavoratore del futuro” non più subordinato ma dotato di potere decisionale. In effetti poter decidere di fare due o tre lavori diversi per “tirare a campare” è un’ottima prospettiva, perché annoiarsi con un unico stabile antiquato noiosissimo stipendio che arriva ogni mese? Infine, quasi a non voler rubare del tempo alla sua attività di ricerca, il coraggioso narratore si sofferma sull’oggetto dei suoi studi, che è la figura di Ercole nell’"Hercules Furens" senecano: «I giovani ricercatori italiani, così come Ercole ha retto il cielo, hanno dovuto fare fronte, in tutti questi anni, ad una mole di lavoro mal pagato che, di fatto, ha retto il mondo dell’università. E così come Ercole si deve sentire frustrato nel confrontare le sue imprese strabilianti con la propria condizione servile, analogamente il sottoproletariato intellettuale italiano si è trovato schiacciato dalla propria condizione meschina e precaria».

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