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“Il Codice da Vinci”, più che film fenomeno di massa

  • 5 giugno 2006

Il Codice da Vinci (The Da Vinci Code)
U.S.A., 2006
di Ron Howard
con Tom Hanks, Audrey Tautou, Ian McKellen, Alfred Molina, Paul Bettany, Jean Reno

“Il Codice da Vinci” non entrerà sicuramente nella storia del cinema, ma in quella del marketing sì. Il film ha infranto una serie infinita di record d’incasso: nel primo weekend ha intascato 224 milioni di dollari in tutto il mondo, di cui 77 milioni negli Usa e 8 milioni di euro nelle sale nostrane. Cifre così mostruose non si erano mai viste, ma si comprendono facilmente se si pensa che solo in Italia le copie in sala sono ben 910 (più di 40 milioni nel mondo). Una distribuzione pervasiva e tentacolare, che ha ben poco a vedere con la libera offerta di mercato e si avvicina pericolosamente all’imposizione monopolista: chi andava al cinema nella prima settimana di programmazione non aveva molte possibilità di scelta sui titoli da andare a vedere (e l’altro filmone in uscita, “Volver” di Almodòvar, è stato grandemente penalizzato da una situazione del genere).

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“Il Codice da Vinci” è un case study che ogni esperto di comunicazione pubblicitaria dovrebbe mandare a memoria. Del resto, quando si riesce a tirare in ballo in questo gran can-can promozionale persino la Chiesa cattolica in persona non c’è proprio storia. La vetrina di Cannes non è niente in confronto a quella del Vaticano, che permette di amplificare la notizia su tutti i telegiornali, arricchendola anche con folcloristici corollari, come i roghi in pubblica piazza e i boicottaggi. Che senso ha accennare alla trama? La metà del pianeta, quella che ha letto il libro di Dan Brown, la conosce alla perfezione, l’altra metà la conosce per forza, a meno che non si sia completamente isolato dalla civiltà negli ultimi mesi.

Che senso ha discutere dei meriti artistici del film quando, palesemente, non gliene importa niente a nessuno? A chi interessa veramente sapere che “Il Codice da Vinci” è mortalmente noioso, insipido, lunghissimo e verbosissimo, in alcune trovate ridicolo fino ai limiti del trash (i flashback della protagonista, oppure il delirio di computer graphic che accompagna la soluzione del mistero)? Che è recitato da attori bravi, Hanks e Tautou, ma totalmente svogliati, soprappensiero, fuori parte, oppure caricaturali (McKellen e Reno)? Che la produzione Sony ha ridimensionato Ron Howard al livello di un pallido mestierante? Tanto si andrà tutti a vederlo lo stesso. Si andrà a vederlo non perché sia un film bello o brutto. Non si faranno lunghissime code di fronte ai cinema con la convinzione di rimanere inchiodati da chissà quali colpi di scena o sconvolti da rivelazioni sconcertanti.

Tutti più o meno sanno già di cosa si parla, avranno letto l’ultimo articolo sul settimanale scandalistico o visto l’ennesimo documentario televisivo che mescola, nell’ordine, Maria Maddalena, Templari, sette segrete, Santo Graal, Opus Dei, “L’Ultima cena” di Leonardo, e via complottando. Andare a vedere il “Il Codice da Vinci” è piuttosto una specie di rituale sociale, una necessità per dimostrare a se stessi di essere in sintonia col mondo circostante. Per dire di essere stati al cinema almeno una volta l’anno, per poter chiacchierare al bar sotto casa. In questo senso la Sony ha fatto il colpaccio: ha confezionato un prodotto che trascende i limiti dell’opera cinematografica per diventare fenomeno di massa, oggetto di consumo, moda, impresa commerciale, capace di lucrare sulle tendenze mistico-misterico-teologiche dell’ultima ora. Decisamente inquietante.

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