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Samuele Calabrò, il pubblico che suona lo spazio

  • 16 maggio 2005

“Stabiliamo un contatto!”: potrebbe essere questo il motto che caratterizza il lavoro del giovane artista Samuele Calabrò, “Touch sound”, da fruire a Palermo presso lo spazio Zelleartecontemporanea fino al 28 maggio (via Matteo Bonello 19; dal giovedì al sabato ore 17.00-20.00, gli altri giorni su appuntamento; tel. 339.3691961, zelle@zelle.it). Chi si aspetta di trovare quadri, fotografie, installazioni, o comunque qualcosa di visibile, di concreto, rimarrà deluso, perché il protagonista assoluto dell’opera di Calabrò è il suono, e gli oggetti - la piccola natura morta di monete, giocattolini e altro che giace sul tavolino all’entrata - sono solo finalizzati alla creazione del suono stesso, mezzo e non scopo dell’operazione artistica. Quelle piccole cose bisogna muoverle, sbatterle, farle stridere sul piano in metallo, e a compiere il gesto deve essere proprio il visitatore, facendo scaturire suoni che Samuele Calabrò cattura dalla sua postazione, che sovrasta lo spazio minimo di Zelle. Come scrive il critico Helga Marsala, “è il pubblico che suona lo spazio, fornendo gli imput necessari all’esecutore di questa sinfonia disarticolata: Calabrò col suo laptop, come un dj alla consolle, raccoglie i segnali trasmessi e li traasforma in personali declinazioni di un paesaggio acustico minimale. Dei sensori collegano i touch plate al laptopo che, ricevute le vibrazioni prodotte dalla collisione tra il piano e i corpi solidi, le elabora in tempo reale, campionandone e modificandone frequenze, timbri, intensità”.

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Il rapporto suono-rumore-espressione non è certo un’invenzione di questi giovani artisti di ultimissima generazione, che sempre più frequentemente si cimentano con la sound art, ma affonda le sue radici nei primi anni del Novecento, con le esperienze dada e con i celebri ‘intonarumori’ di Luigi Russolo in ambito futurista, fino a giungere alle esperienze degli artisti Fluxus negli anni Sessanta. Ci sembra interessante, comunque, che i giovani creativi si confrontino con questi fenomeni di smaterializzazione dell’opera, non limitandosi, per una volta, al video e alla fotografia, mezzi sempre più dilaganti e in alcuni casi (per fortuna non sempre!) monotoni, all’insegna del già visto. Il frastuono che dilaga nello spazio espositivo è come la proiezione del gesto, dell’emozione, del vissuto di chi interagisce con gli oggetti in campo, è l’amplificazione dei moti dell’animo che l’artista riesce a rubare e fare suoi, la rottura di uno stato di quiete; può emozionare, inquietare o irritare, e ti lancia una sfida, fuggire o restare, resistere o scappare, portandosi dietro l’eco di un impatto, di una frattura, di un caos che invita comunque a reagire.

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