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“The Exorcism of Emily Rose”, l'esorcista alla sbarra

  • 31 ottobre 2005

The Exorcism of Emily Rose
U.S.A., 2005
Di Scott Derrikson
Con Jennifer Carpenter, Laura Linney, Tom Wilkinson, Campbell Scott, Colm Feore

In tempi recenti, il cinema americano ha dimostrato un rinnovato interesse per le tematiche luciferine. Da “L’esorcista: la genesi”, passando per “Constantine” fino a questo “The Exorcism of Emily Rose”, sembra che il diavolo sia di nuovo di moda, come ai bei tempi de “L’esorcista” e di “Rosemary’s baby”: che c’entri qualcosa anche il risveglio teo-con nei confronti di religione e misticismo? Ispirato a un fatto di cronaca realmente verificatosi nella Germania degli anni Settanta, “The Exorcism of Emily Rose” racconta la triste storia di una giovane studentessa universitaria che morì durante una seduta d’esorcismo. Padre Moore (Tom Wilkinson), che ha officiato il rito, deve difendersi in tribunale dall’accusa d’omicidio colposo. Sarà assistito dall’avvocatessa in carriera Erin Bruner (Laura Linney), un’agnostica che durante il processo sarà costretta a rivedere le sue posizioni su Satana. Il regista Scott Derrikson affronta il tema da una prospettiva insolita e originale, quella dell’aula giudiziaria.

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Il dibattito tra accusa (convinta che Emily fosse soltanto epilettica e che il decesso sia imputabile alla decisione del Padre di sospendere le cure mediche) e difesa (che considera la ragazza una martire sacrificatasi per testimoniare al mondo l’esistenza di Dio e del Maligno) in realtà inscena il più universale scontro tra scienza e fede, tra razionalismo e misticismo. Chi si aspetta un film dell’orrore (magari attratto dall’ingannevole trailer), resterà per forza di cose deluso: “The Exorcism of Emily Rose” è in realtà un legal movie spirituale, infarcito con alcune sequenze horror, quando c’è da raccontare in flashback la possessione, oppure quando c’è da mostrare le presenze demoniache che minacciano l’avvocatessa. Sequenze, per la verità, girate anche bene, lontane dagli stereotipi e dall’ingombrante presenza del capostipite di William Friedkin. La sintomatologia della posseduta è resa qui in modo (relativamente) più realistico: al bando quindi rigurgiti fluorescenti, teste girevoli e crocifissi usati in modo improprio, e via libera a convulsioni, spasmi e pupille dilatate. Ma il problema sta a monte: il film, imprigionato nella dimensione processuale, sconta la lentezza di interrogatori, controinterrogatori e appelli alla giuria. Quasi due ore di dialoghi interminabili senza azione sono veramente difficili da sostenere. Niente da segnalare per quanto riguarda le interpretazioni del cast, se non per la bravissima Jennifer Carpenter, talmente convincente da rivaleggiare con storiche indemoniate come Linda Blair e Sissy Spacek.

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