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Palermo, 18 aprile 1943: i racconti della strage dimenticata di piazza Sett'Angeli

In quella che oggi è una delle piazzette più frequentate del centro storico, fra la Cattedrale e il Convitto Nazionale, avvenne un tragico evento (dimenticato) che sconvolse la città

Balarm
La redazione
  • 18 aprile 2022

Una foto dell'epoca del bombardamenti del 1943 a Palermo

18 aprile 1943, Piazza Sett’Angeli: una data e un luogo che hanno segnato la storia di Palermo. In quella che oggi è un'area pedonale, tra la Cattedrale e il Convitto Nazionale, frequentatissima dai palermitani e meta "obbligata" dei turisti che non mancano di ammirare uno degli angoli più significativi della città, quasi 80 anni fa si consumò una delle tragedie del secolo scorso.

Un fatto storico di cui bisogna fare memoria - sebbene per anni sia stato dimenticato - per ricordarci sempre la barbarie e la tragicità della guerra, qualunque guerra. 1943: seconda guerra mondiale. È proprio quell'anno che Palermo verrà letteralmente massacrata dai bombardamenti. Lo scontro fra le truppe nazi-fasciste e gli Alleati non lascia scampo alla città.

A Piazzetta Sett'Angeli si trovava un rifugio antiaereo, un cunicolo che fungeva da ricovero, uno dei più affollati del centro storico perchè ritenuto il più sicuro di tutti. Quel 18 aprile 1943 i palermitani sono ancora storditi da quella che passò alla storia come l'esplosione di Santa Barbara (22 marzo 1943), quando le sirene tornarono a suonare annunciando una nuova pioggia di bombe.
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Tra il corri-corri generale, il rifugio di piazza Sett'Angeli anche stavolta si riempì quasi subito. Ma improvvisamente una bomba diretta probabilmente verso la Cattedrale cadde a pochi passi da questa, distruggendo completamente il ricovero. Morirono centinaia (si presume) di palermitani.

Come racconta a Balarm lo storico Wil Rothier, le autorità giunte sul posto dichiararono una trentina di vittime ma probabilmente furono molte di più. «La decisione immediata fu quella di recuperare soltanto i corpi interi o quasi (molti erano solo pezzi di corpi sparsi qua e là nella piazza) e di dichiarare ufficialmente solo 30 vittime. In realtà, non si è mai saputo il numero esatto delle vittime, ma probabilmente sono molte di più: il rifugio infatti poteva contenere centinaia di persone».

Come accade sempre nei periodi di guerra, la propaganda prevale sull'informazione, quindi molte notizie furono in qualche modo insabbiate o rese meno drammatiche della realtà. Ci vorranno anni prima che i fatti venissero ricostruiti per bene e oggi quella che per anni fu una strage dimenticata merita invece di essere ricordata.

Chi ha vissuto quei tragici momenti non dimentica così come chi li ha vissuti indirettamente dai ricordi dei propri cari. Come Nicolò Pavone, che ci riporta la testimonianza dei suoi genitori, all'epoca dei fatti giovani fidanzati, Clara De Francisco e Antonino Pavone. Poco più che ventenni, il 18 aprile 1943 si trovavano in quel ricovero ma riuscirono a salvarsi.

«Mia madre - spiega Nicolò - mi ha raccontato tantissime volte quanto accaduto. Lei lavorava come segretaria ai Cantieri Navali, e quando fu dato l'allarme, mio padre, allora universitario che abitava in Corso Tukory, si precipitò per andarla a prendere. Una volta insieme, di corsa cominciarono ad allontanarsi dal porto per andare verso la casa dei genitori di mia madre, in via Cuba. Improvvisamente cominciarono a piovere le prime bombe e si dovettero rifugiare in Piazza Sett'Angeli».

«Ma dopo poco, una bomba centrò il ricovero e subito dopo mia madre - che era vestita tutta di bianco comprese le scarpe -, vedendo una luce tra le macerie prese la mano di mio padre e se lo tirò fuori. Calpestando decine di corpi riversi per terra, morti o feriti, riuscirono a uscire. Una volta fuori, mia madre si accorse che il suo abito era rosso di sangue, non suo, bensì dei corpi che aveva calpestato».

«Era qualche giorno prima che fu colpita piazza Sett’Angeli, forse il giorno prima, quando è suonato l’allarme - racconta invece la signora Lia (testimonianza riportata da Wil Rothier) - Mia madre era con noi tre bambini. Siamo scappati di corsa verso Piazza Sett’Angeli perché si diceva che era un luogo molto sicuro».

«Non abbiamo fatto in tempo ad arrivare fino a lì che già cadevano le bombe e mia madre, buonanima, che era molto credente, quando ha visto un portone con una statua di San Giuseppe di sopra ha deciso di fermarsi sotto, sperando nella salvezza grazie alla protezione del santo».

«Mia madre teneva forte le mani mie e di mia sorella e cercava di tenere vicino mio fratello. La gente correva, scappava dalla morte, mentre noi eravamo immobilizzati dal terrore. Mio fratello in un attimo è sparito. È stato travolto dalle persone. Travolto della folla che si dirigeva verso il vicino Ricovero di Salita Ramirez. Appena qualche secondo dopo, un boato enorme. Una bomba ha colpito quel rifugio. È l’ultima volta che ho visto mio fratello».

Come Nicolò Pavone e Lia, sono tanti i palermitani che nell'esplosione di piazza Sett'Angeli persero parenti e amici. È la tristissima lezione che la storia ci tramanda, ancora una volta: la guerra, qualunque essa sia, porta solo morte e dolore.
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