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Per i palermitani ogni piatto è Gourmet: et voilà, gli spaghetti "cu picchio-pacchio"

Fatti saltare in padella col pomodoro col picchio-pacchio (pic-pac per i più "fini") e impiattati senza nidi e cretinate varie. Sono una delle prelibatezze estive e ve la vogliamo raccontare

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 6 giugno 2022

Pasta al Picchio Pacchio

Oramai, quando si parla di mangiare, abbiamo tutti in bocca la parola francese “Gourmet” (buongustaio). Ora, va bene le dominazioni, ma c’era bisogno di aspettare i francesi e l’avvento di programmi come Masterchef per capire che il siciliano è bongustaio da sempre, dato che quando si siede a tavola si mangia pure i piedi del tavolino?

«Eh, ma che ci vuoi fare, figlio mio…», avrebbe detto un grande sociologo di nome Zygmunt Bauman, «nella modernità la società è liquida!»
«Come lo zibibbo?»
«Certo, tipo lo zibbibbo, ma intendevo dire che “l’unica sua costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza”.

E forse Bauman conosceva bene la Sicilia perché sapeva benissimo che, appunto, niente dura e non se ne capisce niente. «Ma che c’entra,» direbbe un’altra importante studiosa di nome Saskia Sassen, «il mondo globale è un insieme di reti, flussi di capitali e di informazioni, che coinvolgono attori economici, politici e professionali.», e lei sempre complicata deve parlare!
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In pratica si sta dicendo che, dato per assodato che non se ne capisce veramente più niente, pure a Carrapipi, dove c’è la trattoria che fa la meglio pasta sbattuta au muro del mondo, prima o poi aprirà un ristorante di sushi all you can eat. Provate voi ad immaginare che d’improvviso torni in vita un vostro caro che non c’è più da tempo, e che gli diciate: «Nonnò, stasera ti porto a mangiare sushi!». «A manciare succi?».

Poverini, giustamente crederebbero che i politici si siano mangiati così tanto l’Italia che ci siamo ridotti a mangiare i topi (succi in siciliano sono i topi). Ma che sono mai queste parole straniere? Gourmet, sushi, poke, goulash (ca tanto u spezzatino mia nonna lo faceva già nel 15-18), moussaka, paella…

Mio nonno, che l’unica parola internazionale che conosceva era quella, molto più semplicemente mi avrebbe detto «Amunì, ca ci facciamo due belli spaghetti au picchio pacchio
E già, perché quando fa caldo cos’è meglio di un bel piatto semplice semplice di pasta au picchio-pacchio, o che italianizzar si voglia a pic-pac?

Così nonnò, come il nonno di tutti, avrebbe preso il coltello, avrebbe tritato poca cipolla e tanto aglio, li avrebbe messi a soffriggere, e quando sarebbe stato il momento, avrebbe preso il pomodoro maturissimo tagliato a cubetti e lo avrebbe fatto scivolare dentro la padella calda. A quel punto mi avrebbe detto: «Lo vedi perché si chiama picchio-pacchio? Perché porta il nome del suono che fa il pomodoro quando sfrigola nell’olio caldo».
«Nonnò, ma pacchio in catanese non significa…»

«Porco che non sei altro! Ancora sei piccolo per pensare a ste cose. Però un poco è vero, si dice che “pacchio” sta proprio a significare una cosa ca piace a tutti.»

Eh già, perché una delle possibili origini del nome della pasta fa riferimento alla parola “pacchio”, che a Catania è il frutto femminile che dai tempi di Elena di Troja ha portato gli uomini a scatenare guerre. E se a Catania è il ciuriddo per eccelenza, a Palermo invece un grosso pacchio -un pacchione- è uno che mangia dalla mattina alla sera e fa della panza la sua potenza.

Tuttavia, nonno a parte, la parola pik-pak, indica gli imballaggi. E nel 1943 quando arrivarono gli americani, come tutti sappiamo, spartivano merci , tra cui il pomodoro in scatola, che chiamavano appunto Pik & Pak.
Dopo queste spiegazioni, il pomodoro avrebbe rilasciato tutti i suoi profumi e sapori, e quello sarebbe stato l’attimo preciso di tritare un quintale di basilico fresco e farlo cadere dall’alto come quando la manna dal cielo cadeva sul popolo di Mosé nel deserto. Ancora più profumo!

«Nonnò, ma è più buona della pasta con salsa al pomodoro che ha inventato nonna?»
«Più buona non lo so, ma la salsa di pomodoro la inventarono gli Aztechi, poi ci pensò un Certo Cristoforo Colombo a portare i pomodori da noi. Quello voleva andare in India e invece andò a scoppare in America”.
«Tipo noi quando vuoi andare a Ballarò e ci perdiamo?»
«Na spacie…»

Aveva ragione anche su questo nonno. Perché il periodo in cui si scopriva l’America, la Sicilia era sotto dominazione spagnola, e precisamente ci stavano Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, quelli dell’inquisizione (a quei tempi la pasta au picchio-pacchio non si poteva ancora fare). In quello stesso periodo, però, ci stavano pure quelle che volgarmente si chiamavano “nazioni“, che erano insediamenti delle più grandi nazioni commerciali dell’occidente: tra questi c’erano i genovesi. E proprio i genovesi già a quei tempi erano grandi mangiatori di pesta con pesto alla genovese.

Non di rado capitava che le navi mercantili genovesi approdassero a Trapani, i marinai erano sbummichiati dalla fame, e giustamente chiedevano il loro piatto preferito. Se era tempo di basilico va bene, ma se ce ne stava poco? E così, una volta arrivato il pomodoro, i locandieri trapanesi, per accontentare i genovesi, si inventarono un pesto alla siciliana fatto appunto con il pomodoro, le mandorle al posto dei pinoli, aglio, un poco di basilico e la ricotta.

Finalmente, dopo tutto questo argomentare, gli spaghetti sarebbero arrivati a cottura: nonno li avrebbe scolati, fatti saltare in padella col pomodoro col picchio-pacchio, e avrebbe impiattato senza nidi e cretinate varie. Annusata, spolverata di formaggio, e pronti per tuffarsi nel piatto di pasta estivo più povero ma buono che ci sia: u picchio-pacchio.
«Nonnò…» «Ora zittuti però! Quando si mangia non si parla.»
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