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Quando il gelato a Palermo era quello "del signor Cofea": l'omone coi baffi e la ricetta segreta

Caffè, nocciola, cioccolato, torroncino e gelato alla frutta rigorosamente di stagione. Erano questi i gusti che si trovavano nell'amata gelateria di via Villareale

  • 2 agosto 2021

Nella Palermo di una volta, quando in giro per la città si vedevano ancora le carrozze, all'angolo di via Villareale, dietro il banco di una torrefazione, c’era un omone con i baffi che serviva gli aristocratici senza sapere che di lì a poco avrebbe fatto la storia.

Basta chiedere, infatti, ai palermitani di tante generazioni qual è il gelato al caffè migliore di cui hanno memoria è la risposta è scontata: quello del “signor Cofea”. Così lo chiamavano i più.

All’anagrafe, però, era Federico Dalleo ed era un mastro pasticcere formatosi da Citrolo, uno dei nomi più in voga a quei tempi. La gelateria che tutti noi ricordiamo e per la quale proveremo sempre un pizzico di nostalgia nacque un po' per caso. Il signor Cofea, infatti, dopo avere acquistato la torrefazione nel 1933, decise di dare sfogo alla sua vera passione, ritagliandosi un posticino all’interno del negozio dove produrre quello che diventerà il gelato più famoso del capoluogo.
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Tanto buono che perfino Gabriele D’Annunzio se ne innamorò. «Lo scrittore, che era pilota d’aerei e atterrava spesso a Boccadifalco, andava a mangiare le primizie da Giovenco, con cui erano amici e che si trovava proprio accanto alla torrefazione di mio nonno» - ci racconta Giada, una delle nipoti - «Assaggiando il gelato, ne rimase estasiato e fu proprio lui a suggerire il nome "Cofea", che viene chiaramente dalla pianta del caffè “Coffea”».

Non un incontro fortuito, ma un legame consolidatosi nel tempo. A conferma di ciò, un telegramma conservato da uno dei figli di Federico, dove D’Annunzio «chiedeva di spedirgli “l’oro della Conca d’oro”, come chiamava le arance di Giovenco, in cambio dell’oro del Garda».

Non sapremo mai cosa gli arrivò dal lago, ma quel che sappiamo è che nel 1963, presosi di coraggio, magari anche grazie all’incoraggiamento del poeta abruzzese, si trasformò a tutti gli effetti nel "signor Cofea": fra la Clinica Candela e Giovenco, al numero civico 18, nacque la mitica gelateria che ancora oggi ci fa battere il cuore al solo pensiero, con i pozzetti a conservare il gelato e le poche fragranze ad allietare i caldi pomeriggi dell'estate palermitana.

Caffè, nocciola, cioccolato, torroncino e gelato alla frutta rigorosamente di stagione. Erano questi i gusti che si trovavano in via Villareale. Insieme alla passione che Federico Dalleo, nominato Cavaliere del Lavoro non a caso, metteva nel produrre artigianalmente il suo gelato, trasmettendola ai suoi figli.

Furono proprio loro, Armando e Giuseppe, a prendere il timone del negozio quando il padre si ammalò nel 1972, seguendo con cura e attenzione tutti gli insegnamenti appresi fin da quando, piccolini, scorrazzavano in gelatiera e imparavano il mestiere osservando. E ne hanno fatta di gavetta: «fino a 15 anni, infatti, non potevano neanche mettere il gelato nei coni, anche in quel caso il metodo era importante!».

Giuseppe, il più grande dei due, dopo tanto “apprendistato”, decise addirittura «di aprire un secondo punto vendita e così, approfittando dell’apertura del DrugStore, nel 1974 alzò la saracinesca per la prima volta del secondo bar Cofea, in via Libertà 36».

«Ricordo ancora mio padre che usciva di casa alle 5:30 del mattino per andare al lavoro» - ci racconta Giada - «Aveva appreso la ricetta da mio nonno e la seguiva alla lettera, realizzando il gelato quotidianamente. Le brioscine arrivavano ogni giorno da Spinnato alle 6 e, se durante la giornata non venivano consumate, di sera le dava ai piccioni. Il latte usato era quello Barbera non pastorizzato, poi quello Stella in bottiglie di vetro, guai a cambiarlo. Così come il cioccolato: solo
Pernigotti».

Insomma, una produzione “maniacale” che prevedeva alcuni passaggi obbligatori: «controllava le fragoline una per una prima di setacciarle, toglieva i semi dell'anguria manualmente, sbucciava le nocciole una a una e faceva caffettiere su caffettiere per quel gelato al caffè che è rimasto nella storia».

Ecco, quindi, svelato l’ingrediente segreto. Dedizione e reale artigianalità facevano la differenza. Insieme a quei riti che, nella frenesia della vita moderna dove la quantità spesso prevale sulla qualità, non sono neanche più immaginabili.

Ma Cofea non era soltanto un'ottima gelateria. Era molto di più. «Era un luogo di ritrovo, di aggregazione, un luogo dove ci si dava appuntamento per chiacchierare, dove ci si sentiva a casa» perché prima Federico e dopo Giuseppe e Armando, con i loro dipendenti, erano diventati una vera e propria famiglia per i palermitani che frequentavano il bar e lo vivevano come un punto di riferimento.

Tanto che è bastata una foto e un post su Facebook, in un gruppo dove con nostalgia si dà spazio alla Palermo che fu, per far riaccendere i ricordi di un tempo che purtroppo non c'è più. «Nel 1959 il sabato pomeriggio era un rito, sento ancora il gusto dell’amalgama perfetta tra gli ingredienti!», «Tornando a casa dall'università facevo la strada più lunga per poter passare da
Cofea, non ho mai più gustato un gelato al caffè così buono!».

E ancora, «Il loro gelato al caffè una goduria per le papille gustative. Indimenticabile, ancora oggi cerco un gelato come quello ma non si trova…», «Eravamo ragazzini (i cinque cuginetti) incaricati di andare a comprare i coni di pomeriggio quando abitavo in via Di Stefano. Per noi il gelato al cioccolato, per i grandi al caffè. Poi quando sono diventata solo quello al caffè, il più buono che ho mai assaggiato..» sono solo alcuni degli innumerevoli flashback che si leggono sotto quella foto.

Purtroppo non conosceremo mai la ricetta: «non v’è traccia scritta perché, come si faceva in passato, è stata tramandata a voce di padre in figlio e soltanto i figli maschi hanno voluto continuare la tradizione». Possiamo quindi ricordarne il sapore e sperare che prima o poi arrivi in città un nuovo "signor Cofea" che ne segua le orme, senza sacrificare la qualità in nome della
quantità.
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