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Quando in Sicilia le cose si aggiustavano: u zu' Turiddu e (l'antica) arte dello "scarparu"

Tra i vari artigiani uno dei più caratteristici In Sicilia era il calzolaio ovvero “u scarparu”, considerato squattrinato e girovago, furbo e molto simpatico

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 7 gennaio 2023

U' scarparu

Gennaio è un mese di sconti. Finite le festività natalizie, le vetrine brandiscono enormi cartelloni con numeri pazzi, quasi fossimo alla lotteria.

Dove il 70, dove il 50, dove il 30% di sconto. I negozi sono talmente affollati che sembra stiano regalando i loro prodotti. È l'era del consumismo, nulla di nuovo sotto al sole. Vale però sempre la pena rifugiarsi di tanto in tanto in qualche “riflessione nostalgica”.

Quante volte avrete sentito dire da qualche anziano signore che “le cose un tempo non si buttavano ma si aggiustavano”? Impossibile non fare paragoni con il passato. Al posto dei grandi centri commerciali, una volta c'erano le “putie” e i “putijara”, cioè le botteghe e i bottegai.

Entrambe le parole derivano dal termine greco apotheca da cui apothecarius. Le putie erano delle stanze al pianterreno site nelle vie pubbliche nelle quali i bottegai e gli artigiani realizzavano e vendevano i propri prodotti.
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Coppolari (fabbricanti di coppole) bottonari (fabbricanti di bottoni) carritteri, arginteri, busara (fabbricanti di “busi”, arnesi per fare le calze) chiodai, cintorinai ecc. popolavano intere strade nelle quali erano concentrate le loro botteghe.

Tra i vari artigiani uno dei più caratteristici era il calzolaio ovvero “u scarparu”, considerato nel volgo uno tra i mestieri più simpatici, infatti un vecchio detto siciliano diceva “pampina di zabbara su' simpatichi tutti li scarpara”.

A Palermo c'erano due strade di calzolai dette degli “Scarparelli”: una si trovava nell'odierna via dei Cassari nel quartiere della Loggia, l'altra si trova ancora oggi nel quartiere dell'Albergheria, nei pressi del mercato di Ballarò. Gli Scarparelli erano considerati calzolai di “poco conto”, cioè che “arripizzavano”, aggiustavano alla meno peggio le scarpe per pochi soldi.

Ognuno di questi artigiani aveva degli strumenti tipici del mestiere, ovviamente anche lo scarparo. Questo tipico artigiano, come molti altri, ai giorni nostri è ormai sostanzialmente scomparso, ha dovuto cedere al cambiamento dei tempi, al migliorato tenore di vita della popolazione del ceto medio-basso, alle evoluzioni della moda e alle logiche del mercato.

Quando pensiamo che un paio di scarpe siano vecchie, tendiamo a buttarle, un tempo non era così. Lo scarparo le aggiustava. Cambiava la suola usurata, lucidava la pelle, sostituiva i lacci logori, rattoppava i buchi, cambiava i tacchi.

Purtroppo assieme al nome dialettale del mestiere, che tutto sommato ancora resta ed è conosciuto e a volte usato tra la popolazione, stanno per scomparire alcuni termini dialettali con i quali si distinguevano gli oggetti che usava questo artigiano.

Ad esempio “u marteddu ri scarparu” che ha una forma particolare ondulata; “u trincettu” che è un coltellino affilatissimo; “a siminzedda”, cioè piccoli chiodini da calzolaio; “a furma”, ovvero forme di ferro di varie dimensioni per realizzare la suola e il plantare delle scarpe; “a vugghia”, cioè un ago che serve per cucire; “a lésina”, sorta di punteruolo o specie di cacciavite utile solo per forare la pelle; “a cira”, cera d'api utile per rendere viscido lo spago; “u vanchiteddu”, un piccolo tavolo da lavoro ecc.

Nell'immaginario favolistico u scarparu è sempre squattrinato e girovago, va per le strade e i paesi in cerca di lavoro gridando: “Cunzamu li scarpi. Soli e taccuna mittemu!”. Non trova mai nessuno che voglia le scarpe aggiustate ma viene dipinto come un personaggio molto furbo e fortunato.

Si salva spesso da situazioni di pericolo con astuzia e alla fine delle storie in un modo o nell'altro riceve sempre una buona ricompensa. Da piccolo ho avuto la fortuna di conoscere uno scarparo anziano.

Abitava nella mia stessa borgata. Non sapevo perché quando passavo davanti la sua bottega mi sorrideva sempre e mi salutava. Aveva la bottega proprio a casa sua, una stanza piccolissima, una specie di pirtuso. E lui la mattina stava sempre lì con la persiana aperta. Era conosciuto da tutti e ben voluto. Si chiamava zu' Turiddu. Non era un girovago come quelli delle favole.

Si sa, sono favole, non raccontano proprio una verità assoluta. Ironia della sorte, u zù Turiddu era sciancato, zoppo, ma aggiustava le scarpe a coloro che invece camminavano bene. Solo da grande ho scoperto perché mi sorrideva e mi salutava sempre. L'ho scoperto grazie ad una vecchia foto di lui insieme a mio nonno Nino. Erano grandi amici e sovente mio nonno lo aiutava.

U zu' Turiddu mi sorrideva e mi salutava per rispetto, perché sapeva a chi “appartenevo”, ed io con questo breve articolo, oggi, che lo ricordo, posso ricambiare sinceramente il suo affetto.
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