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"Qui comincia il terrore": così Agrigento superò l'ondata del colera di fine Ottocento

Gli storici riferiscono che la malattia fosse giunta in Italia nel 1865 dall’Egitto, di poi giungendo a Palermo per tramite involontario di alcuni soldati imbarcatisi a Napoli

  • 7 aprile 2020

Il frontespizio di un libro con le istruzioni sul colera del 1836


“Qui comincia il terrore.” Sono parole, apodittiche e lapidarie, di Giuseppe Picone, il più grande storico di Agrigento, che le annotò durante l’ultima devastante epidemia di colera nel 1867. La terza in soli cinquant’anni.

L’insorgere lesto e virulento dell’epidemia ci viene descritto da Edmondo De Amicis in una sua bella pagina, secca come un resoconto stenografico, in cui registra: «Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette, il colera mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; donde nel mese di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa, nell’aprile, in quella di Caltanisetta, e crebbe poi fierissimamente in entrambe nel mese di maggio, favorito dai calori estivi, che si fecero sentire un mese prima a cagione della lunga siccità».

Gli storici di oggi riferiscono che la malattia fosse giunta in Italia nel 1865 proveniente dall’Egitto, di poi giungendo a Palermo per tramite involontario di alcuni soldati imbarcatisi a Napoli. Anche la Sicilia, uno scrigno inefficacemente protetto dal mare, si apprestava alla barbarie della morte.
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D’urgenza, il Ministro dell’Interno comunicava al Prefetto di Girgenti di vigilare sulle disposizioni cogenti in merito alla pubblica sanità ed igiene, intensificando le misure di sorveglianza. Come anche oggi, dove l’inatteso sconvolge il piano delle abitudini, il colera giunse prima del riparo normativo. Era una fine atroce; solo a Napoli ne morirono a migliaia, contando anche il poeta Giacomo Leopardi, figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni 38, deceduto in Vico Pero n. 2 e seppellito come tanti in una fossa comune.

“Qui comincia il terrore”, e di ciò si rende immediatamente conto Giuseppe Mirabile, di famiglia titolata e colta, due volte sindaco di Agrigento, che con un’ordinanza contingibile e urgente aveva disposto nell’ordine: un cordone sanitario interno alla città; la custodia delle porte d’ingresso; lo sfratto dei luoghi infetti; l’obbligo di certificazione sanitaria per i cittadini provenienti da altri comuni.

Si cercò di garantire a tutti gratuitamente farmaci e antisettici, e le case si disinfettavano con cloro e solfato di ferro. «La fame ed il colera minacciano la città. Il popolo fugge per le campagne. La mortalità di chi resta nell’abitato è relativamente numerosissima».

Ancora, Giuseppe Picone ci ricorda la condizioni miserevoli di quella infelice stagione di Agrigento, con i poveri rimasti a morire nelle loro stamberghe e i proprietari terrieri a trarsi in salvo scampando nelle loro tenute di famiglia. Nella Chiesa dei Cappuccini e nei conventi della città si impiantano piccoli ospedali di fortuna, dacché il solo ospedale della città non ha posti letto a sufficienza.

Si ammalò anche Stefano Pirandello, che dopo essere stato curato e salvato decise con la moglie Caterina Ricci Gramitto di spostarsi verso contrada Caos, lontano dalla città, là dove il 28 giugno 1867 nacque Luigi Pirandello. A contrappasso di questa nascita straordinaria, alla fine si conteranno ad Agrigento più di mille morti.

In altri tempi, il racconto del colera in Sicilia sarebbe stato apprezzato da pochi e sparuti lettori: chissà che ora il richiamo alla pandemia da Covid-19 non dia conto delle angosce del presente tra le maglie dolenti del nostro passato, che ci riguardano tutti quali membri di un’umanità collettiva. E oggi come ieri vengono alla luce azioni di solidarietà: le associazioni di volontariato, le aggregazioni spontanee di cittadini, i medici e gli infermieri, quelli che non hanno il tempo di fare la posa con la mascherina per scattare un selfie contando i like tra le quattro mura della loro casa.

Non i fenomeni da baraccone, ma i medici veri, in corsia, quasi senza volto se non per il loro coraggio che li rende eroi del quotidiano. Per ricordare il loro impegno d’oggi, sia d’esempio quel che fece ad Agrigento il medico Giuseppe Serroy. Nel 1827, quando scoppiò un’epidemia di tifo in tutta la provincia, affrontò la malattia curando migliaia di famiglie e riuscendo a debellarla anche grazie ad alcuni medicamenti preparati a sua cura e distribuiti agli ammalati.

Per i suoi meriti divenne medico del comune di Agrigento, del suo carcere e dell’ospedale civico, prima di venire eletto deputato del Parlamento Siciliano nel 1848. Ad Agrigento è ricordato con una via a lui intitolata; a Raffadali, dove nacque, vi è la tomba dove è seppellito, una targa sulle pareti della vecchia casa in cui nacque e la dedica del circolo più antico del paese. Bisognerebbe ricordarlo meglio, Giuseppe Serroy, e con lui i tanti che la cattiva coscienza del tempo ha dimenticato.

Non v’è dubbio che passato tutto quel che sta accadendo, saremo costretti a ripensare un paradigma per la costituzione di una nuova vita sociale; nella difficoltà, si potrà far leva sui principi di un’umanità migliore, che passi anche dal ricordo di quel che è stato e che la nostra memoria corta ha deposto: uomini, azioni, abitudini, pensieri.

La storia non è disciplina da mediocri funzionari, inerte conservazione di vecchi documenti incipriati, ma è patrimonio intellettuale di chi elabora criticamente il presente. E se in questo tempo di reclusione volontaria qualcuno avesse voglia di leggere qualcosa di utile, potrebbe recuperare un vecchio libro di Jean Chesneaux dal titolo "Che cos'è la storia", dove in un passaggio è scritto:

«Ponendo il rapporto collettivo con il passato come base della conoscenza storica, si inverte radicalmente la relazione presente-passato. Il passato non è più al posto di comando, non dà lezioni, non giudica dall’alto del suo tribunale. È il presente a porre questioni e a tirare le somme».

Non lo dobbiamo agli altri, quanto lo dobbiamo a noi stessi.
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