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Scrisse un romanzo tragico (e attuale): Elvira cent'anni fa in Sicilia scelse di non sposarsi

Elvira Mancuso appartiene a quelle scrittrici italiane di cui raramente si parla: una donna moderna, per scelte di vita e pensiero, riscoperta da Calvino e Sciascia

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 5 giugno 2023

La locandina del film "La maestrina" del 1942

Elvira Mancuso appartiene al numero di quelle italiane scrittrici di cui raramente si parla: una donna moderna, per scelte di vita e pensiero; nei suoi scritti propugnava la parità dei sessi e indicava l’istruzione come unico strumento di riscatto femminile.

Oltre cento anni fa, nel cuore della Sicilia agraria, Elvira poneva coraggiosamente la sua libertà e la sua autonomia al di sopra di tutto: sceglieva di essere nubile, di emanciparsi culturalmente ed economicamente per non essere un’eterna mantenuta.

Rispettosa di sè stessa, rifiutava di sposarsi, perché vedeva nel matrimonio un pesante giogo, che sottometteva la donna all’ assolutismo del marito padrone.

Scriveva infatti: «da tutte le conquiste della borghesia, la donna siciliana non ha ricavato che il magro conforto di servire un padrone più libero, più potente, più lieto di vivere.

Ella è rimasta, intellettualmente, assai inferiore all’uomo, e la coscienza di questa sua inferiorità la rende sì umile, che la sua perenne sottomissione, il sacrificio continuo dei suoi diritti, della sua personalità, le sembrano cose fatali e necessarie, ordinate dalla natura e da Dio.
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E l’uomo che la governa e la opprime, e ne pretende i più ingiusti, assurdi sacrifici, è assai sovente in buona fede, perché anche lui convinto che la donna è una creatura inferiore, incosciente, irresponsabile, una specie di graziosa bestiolina unicamente nata per servire e sollazzare il suo padrone».

Elvira invece non voleva essere una buona donnina borghese; voleva che la si riconoscesse donna con il diritto di discutere con gli uomini di ogni argomento, non solo di governo domestico, del cibo e del bucato; e la solitudine fu il prezzo da pagare per la temeraria ribellione alle regole borghesi che la volevano esclusivamente votata al matrimonio, alla maternità, alla domestica tirannide.

La donna sola, la zitella, notava Elvira, non poteva uscire se non per andare a messa (e sempre accompagnata); non doveva coltivare alcun’amicizia se non di donne sole come lei e non doveva mai avere l’ardire di accostarsi a un caffè o a un teatro Elvira Mancuso era nata a Caltanissetta il 15 Dicembre del 1867, da Giuseppe (ex garibaldino e poi avvocato penalista) e da Rosa Rocchetti.

La coppia, che aveva riconosciuto alla nascita la bambina, si era unita in matrimonio solo due anni dopo, il 23 agosto 1869.

Elvira era diventata insegnante dopo aver conseguito la laurea e prima di poter ricoprire a quarantadue anni la cattedra d'italiano presso l'istituto magistrale di Piazza Armerina (190-1910) e poi negli istituti tecnici professionali di Caltanissetta, a partire dal 1905 aveva insegnato come supplente e incaricata fuori ruolo.

Nel 1889 aveva pubblicato il suo primo racconto Storia vera sulla rivista Cornelia; erano seguiti quattordici articoli, pubblicati tra il 1890 e il 1891 e firmati con pseudonimi maschili (soltanto dopo sedici anni di assenza dalla testata sarebbe uscito l’ultimo articolo firmato con il proprio nome).

Elvira era piccola di statura, ma si aggirava solitaria per le vie di Caltanissetta trascinando una grossa borsa di pelle piena di libri: era un’evidente provocazione, di fronte al pregiudizio che negava alle donne la lettura dei libri impegnati ma concedeva «gustose chiacchiere da una finestra all'altra con le vicine» o «gaie serate intime di tombola o di sette e mezzo».

Nel 1906 Elvira Mancuso pubblicò a proprie spese, firmandosi col suo vero nome, Annuzza la maestrina, il suo primo e unico romanzo (un'opera che merita di essere accostata al lavoro della contemporanea Sibilla Aleramo).

La scrittrice inviò trepidante la prima copia a Luigi Capuana: eppure l’autore di Giacinta (donna che fa resistenza alla società) nonchè traduttore di Casa di bambola di Henrik Ibsen, non solo non apprezzò il romanzo, che recensì tiepidamente sulla Nuova Antologia (1907) ma nonostante diversi scambi epistolari non dedicò troppa attenzione alla Mancuso, promettendo e posponendo un incontro che alla fine non avvenne mai.

Su La Sicilie Illustre del 1906 si leggeva invece: “Elvira Mancuso è indubbiamente una di quelle donne di forte tempra e di grande resistenza…di volontà ferrea, d’ingegno elevato, studiando da sé sola …e combattendo amare lotte con i parenti, che non avrebbero voluto, è riuscita a conseguire nell’Università di Palermo la laurea di professoressa.

Ed è riuscita a dedicare tutta se stessa, con raro zelo e abnegazione, all’insegnamento: ha voluto ciò facendo dichiarare guerra aperta ai pregiudizi che come ella stessa dice nei nostri paesi tengono la condizione della donna ancor vicina a quella della serva".

Tra il 1906 e il 1909 la Mancuso fece pubblicare diversi suoi scritti: nel 1906 un'opera in versi Resede e ortiche e nel 1907 Sulla condizione della donna borghese in Sicilia: appunti e riflessioni, dove con sguardo lucido e intuitivo e con toni spesso sarcastici e provocatori, delineava la propria appassionata critica alla discriminazione femminile: difficile non vedere -affermava la scrittrice - come anche le donne siciliane di condizioni più agiate soffrano della condizione di subordinazione nei confronti di padri e mariti autoritari.

Infine nel 1906 usciva la raccolta Bagatelle (1909); poi Elvira scrisse ancora qualcosa ma lo lasciò per sempre nel cassetto…Dopo la morte del padre nel 1922 ebbe diversi problemi economici, anche perché aveva a carico una vecchia zia malata. Andò in pensione nel 1935 e morì a 91 anni nel 1958, nel suo ritiro presso le clarisse di Caltanissetta.

Diversi anni dopo, il 26 maggio del 1981 Italo Calvino scriveva a Leonardo Sciascia: “Caro Leonardo…Ho letto finalmente Annuzza e la maestrina di Elvira Mancuso e mi pare proprio che sia una cosa che merita di tentare una riproposta. Lo farei in Centopagine se tu fai una introduzione di poche pagine”.

Calvino dunque proponeva a Leonardo Sciascia la ripubblicazione di un romanzo del 1906, per presentare ai lettori Elvira Mancuso, così come già aveva fatto con un'altra grande scrittrice siciliana, Maria Messina.

Elvira Mancuso e Maria Messina furono scrittrici accomunate da molte cose: vissero nella medesima epoca; furono entrambe influenzate dal naturalismo (sulla scia di Verga e Capuana); denunciarono nelle loro opere l’asfittica e opprimente condizione femminile e per questo vennero considerate delle ribelli e subirono l'emarginazione culturale in vita e il triste oblio dopo la morte.

Nonostante l’interesse di Calvino, il romanzo di Elvira Mancuso venne poi ripubblicato soltanto nel 1990, dall’editore Sellerio, con l’eloquente titolo: Vecchia storia…inverosimile. Di che storia inverosimile si tratta? Di una storia di violenza e sangue terribilmente attuale.

Il romanzo è ambientato nel 1880, nel piccolo paese di Pietraperzia: Pasquale un benestante massaro, di 24 anni si fidanza con Annuzza che di anni ne ha 15, è orfana di padre e vive con la madre che fa la cameriera. I fidanzati sono male accoppiati.

Pasquale è analfabeta, ma è ingenuo e generoso mentre Annuzza è un’adolescente furba e istruita, “volpina”: aspira a riscattarsi socialmente e talvolta si dimostra algida e cinica. La ragazza studia in un convitto di Caltanisetta per diventare una maestra e impone a Pasquale - che la mantiene agli studi – un lungo fidanzamento, fino al conseguimento del diploma.

Annuzza prova disgusto e vergogna, per quel fidanzato rozzo e ignorante, neanche troppo sveglio, ma ha bisogno dei soldi del ragazzo, per riuscire a finire gli studi.

Quando il giovane aggredisce in piazza il cugino Filippo (che definisce la fanciulla “una mantenuta”) e viene messo in carcere, Annuzza ne approfitta per rompere il fidanzamento. Ella riesce comunque a diplomarsi mentre Pasquale decide di sposare senza amore la scialba e attempata Bastiana.

Il racconto verista sarebbe una vecchia storia risaputa, se terminasse qui, afferma Salvatore Silvano Nigro (incaricato da Calvino di fare delle ricerche sulla vita e le opere di Elvira Mancuso) e invece ecco il finale “inverosimile”: Annuzza vuole liberarsi da ogni debito, restituendo a Pasquale la somma spesa per i suoi studi.

La ragazza prima impone l’illecito mantenimento senza alcun contraccambio e poi arriva al gesto estremo di restituire all’ex fidanzato non solo i regali, ma tutti i soldi spesi per lei: si tratta di un vero e proprio insulto, dell’umiliazione del machismo.

Pasquale non può tollerare tale affronto, non regge tanta emancipazione femminile e vendica l’onore del maschio ferito in un lago di sangue, uccidendo l’ex-fidanzata.

Annuzza non muore perché non è più illibata o perchè tradisce il suo uomo, come avviene nella narrativa verista, ma viene uccisa perché desiderosa di un riscatto sociale attraverso un atto di autodeterminazione.

Il fidanzato è un uomo dapprima generoso, poi sempre più chiuso, incapace di comprendere la legittimità del desiderio di indipendenza della donna amata, esclusivamente percepita come una sorta di oggetto che gli appartiene.

Le vicissitudini che condurranno al tragico epilogo finale sottolineano la difficoltà di superare dinamiche relazionali secolari, fondate sul controllo e sul possesso anziché sul riconoscimento della libertà dell’altro e sulla fiducia reciproca.

Leonardo Sciascia stesso concludeva: in questo libro purtroppo "vi sono molte verità che non invecchiano".
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