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Se ci viene tolto (anche) l'ultimo saluto: la dura lettera di un medico Covid a Palermo

Paolo, medico palermitano, racconta una storia dura e lancia un monito a tutti noi: «Abbiate rispetto delle regole, può capitare anche a voi una cosa del genere»

Balarm
La redazione
  • 18 novembre 2020

Paolo, il medico palermitano autore della lettera

In questi giorni in cui le notizie sul Covid la fanno da padrone, non è raro imbattersi in pensieri e riflessioni che lasciano il segno e che ci fanno comprendere come sia complesso gestire, non solo gli aspetti sanitari, ma anche le relazioni umane durante questa pandemia.

Su Facebook, fra gli altri, ha scritto la sua un medico palermitano che lavora in un reparto Covid di un ospedale in Emilia Romagna.

«Qualche settimana fa - scrive Paolo - mi sono trovato a scrivere su Instagram che non è (solo) il covid (di per sé) che uccide; e che prima ancora di uccidere, distrugge ogni tipo di umanità e interazione umana. Dentro e fuori l'ospedale, positivi o negativi».

A questo punto il sanitario avverte che racconterà una storia forte ma che probabilmente aiuta a capire come stann le cose in corsia.

«Il mio reparto ormai è un mese che è stato riconvertito a reparto covid. Reparto covid non vuol dire che la gente ci venga ricoverata solo per il covid; vuol dire che ci vengono ricoverate persone che hanno necessità di essere ricoverate e che hanno il covid, che non necessariamente è la causa per cui entrano. Certo, molti vengono ricoverati per peggioramento della sintomatologia data da sto schifo di virus. Ma molti altri vengono ricoverati per altri motivi da una colecistite, a uno scompenso diabetico, da una infezione urinaria, e un trauma. Ed avendo il covid necessariamente devono stare nelle zone apposite».
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«Fra queste persone - prosegue - nel fine settimana passato è arrivata una donna di circa 40 anni. Arrivava dall'oncologia. Una donna purtroppo terminale, ma terminale nel senso che le potrebbe mancare davvero poco. In oncologia giustamente permettono, con le dovute precauzioni, di vivere questa fase della vita e della degenza con l'amore dei familiari, che è davvero la cosa più importante da dare a questi pazienti, ma anche ai familiari stessi.

Fra le precauzioni ci sono anche i tamponi ripetuti ogni breve tempo proprio per individuare per tempo eventuali contagi e rompere la catene di diffusione.
Questa signora qualche giorno fa è risultata positiva. Succede, succede in ogni reparto.

Così nonostante non avesse sintomi inerenti al covid, si ritrova, nel suo stato di terminalitá, a essere trasferita nel nostro reparto, dove, ovviamente, i parenti non sono ammessi neanche lontanamente. I suoi parenti si mettono ovviamente a casa in quarantena preventiva. E qui comincia l'avventura.

Il marito chiama chiedendo se fosse possibile in qualche modo fare una videochiamata visto che alla moglie resta poco, per salutarla, per averla almeno visivamente vicino per qualche minuto. E noi medici, infermieri, non possiamo e non vogliamo dire di no. Ci avevano fornito degli smartphone alla prima ondata. Ma gli smartphone non usandoli, hanno bisogno degli aggiornamenti. Per fare gli aggiornamenti ci vuole il log in, ma dopo mesi né i medici né l'assistenza tecnica sembra più sapere quali sono le credenziali.

Intanto giustamente il marito richiama, sua moglie ha 40 anni e a breve potrebbe non essere più fra noi, quantomeno vederla, è il suo desiderio.

E come fai a dire di no? Con quale umanità? Ma non puoi di certo farli vedere di persona. Allora vista l'impossibilità di usare quegli smartphone, un medico mette a disposizione il suo telefono (rigorosamente incellofanato e chiuso), un altro mette a disposizione la sua presenza per tenere il telefono davanti la signora che da sola non riesce, e si prova a fare ciò che si può.
E qui il colpo.

La videochiamata inizia, spieghiamo che gli mostreremo un po' la moglie, poco rispondente, che è esattamente come l'avevano lasciata in oncologia. Il marito, che non si toglierà più di qualche anno di età da noi medici, chiama qualcuno davanti lo schermo.

Arrivano 3 bambini dai 10 ai 3 anni. Uno dei tre ha ancora il ciuccio. Si affollano davanti allo schermo con le loro testoline, fanno un po' l'uno, perché quello schermo è l'unica finestra su ciò che c'è di più importante nel loro mondo: la mamma.
Ripetono insistentemente quanto la amano, le implorano di aprire un po' gli occhi, gli raccontano delle lezioni online, dei giochi, di quanto lei gli manca e del fatto che l'aspettano a casa o "quantomeno nell'altro ospedale dove potevamo vederti".

Le voci passano dal felice e colloquiale al triste, spezzate, tristi. I "mamma ti amiamo" diventano "mamma ti vogliamo vicino, ci manchi, ti prego guarisci". E non parlano di guarigione dal cancro, ma in maniera più immediata dal covid, perché quel tampone che torna negativo potrebbe essere la chiave per rivederla e riabbracciarla.

Potrebbe. Perché a volte il tempo è infame, e contiamo i giorni sperando che il tampone si negativizzi prima che accada qualcosa di peggio. Che possano tornare a toccarsi, a baciarsi, ad abbracciarsi, che possano concludere questo capitolo dolorosissimo, standosi vicini e non affannandosi per un'oretta davanti a uno smartphone raccontando qualunque cosa pur di sentirsi vicini alla mamma.

Il tempo passa e nessuno riesce a reggere, dopo un po' devi uscire, perché il male che fa quella scena è devastante, toglie il respiro e appanna gli occhi più di due mascherine. Ci diamo il cambio per tenere uno smartphone e dare un barlume di umanità e consolazione a una famiglia già dilaniata dal dolore che c'è stato e ancora ci sarà».

A questo punto il racconto del medico diventa una riflessione. Un invito a rispettare gli altri e a rispettarci, dall'uso della mascherina alle altre buone pratiche. Il Covid ci divide ma dobbiamo essere responsabili del futuro.

«Non vi auguro mai di vivere quello che stiamo vivendo come medici, come parenti, come malati - conclude il sanitario -. Questa è solo la più devastante delle cose successe in questi giorni, ma solo oggi avrei almeno un altro paio di storie da raccontare così dure.

Vi auguro e vi chiedo invece di avere rispetto per chi sta vivendo una situazione tragicamente meno fortunata di voi. Che sia per il covid di per sé o per altro che il covid rende solo più tragico. Perché è questo il problema. Il Covid non è solo un problema di per sé, si porta dietro una rovina della realtà che ci circonda, terrificante. Che sia nel collasso delle strutture o nella distruzione dei rapporti umani, soprattutto quelli resi fragili dalla malattia (in senso lato).

Quando vi lamentate di non potere passeggiare al mare, quando vi lamentate che non potete fare aperitivo, quando ve ne state per negozi pomeriggi su pomeriggi interi solo per "evadere" delle regole dettate da chi ci governa, ricordatevi di questa ragazza di 40 anni, a cui ognuno di noi potrebbe essere legato da un filo diretto di responsabilità.

Perché non sai mai chi puoi avere accanto e il rischio a cui ti esponi o lo esponi visto l'alto numero di asintomatici. Smettetela di fare i bambini capricciosi troppo cresciuti. Le regole sono fatte per necessità, anche quando non sono le migliori o le più apprezzate».
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