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Se ti dicono "calantruni", proprio bello non è: origini (possibili) di questa offesa sicula

Diverse le ipotesi sulle origine di questa parola usata dai siciliani per indicare un preciso di tipo di uomo che andrebbe sicuramente studiato sotto il profilo socio-antropologico

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 11 aprile 2022

La Calandra (foto di Jiri Bohdal)

Sin dai tempi dei sumeri, in Sicilia, quando un figlio maschio decide di studiare, per i padri esistono solo due possibili carriere: studiare d’avvocato o diventare medico. Tutto il resto non è nemmeno contemplabile o per dirla alla Califano “è noia”.

Già, camminare per le strade di un paese e sentirsi chiamare avvocato o dottò (a meno che non sia una pigliata per il culo) è motivo di orgoglio per sé, per la famiglia, per gli amici e per gli amici degli amici che storicamente sono stati sempre i primi ad usufruire dei servizi di medici e avvocati.

Di conseguenza, quando ad un bambino viene fatta in pubblico la domanda fatidica: “cosa vuoi fare da grande?”, quello è uno dei momenti più critici di tutta la sua esistenza perché anche se non c’è filodiffusione parte comunque la colonna di “2001 Odissea nello Spazio”, si attiva il rallenty, e tuo papà attende la risposta con la stessa benevola espressione di Abramo quando acchiappa suo figlio Isacco per il sacrificio e gli dice “Vieni qua a papà, oggi ci facciamo un’escursione in montagna”.
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Mio cugino, per esempio, una volta rispose che voleva fare il tennista. Zia Mariuccia, che una racchetta, a parte quella per battere i panni, non l’aveva vista mai, sentendo quella strana parola giustamente si insospettì: “U tennista? E che è stu tennista?”. Per fortuna lo zio, il papà di mio cugino, capendo la carta malapigliata, spiegò a tutti che trattavasi di una specie di piastrellista specializzato (lo si sarebbe dovuto capire dalla desinenza “ista”) e la situazione dunque si calmò.

A me invece andò un po’ meglio: dichiarai a casa dei nonni che volevo fare l’astronauta, nonnò capì “gastronauta”, nonna l’associò al nome di un medicinale, zia Mariuccia confermò, quindi medico e perciò tutti contenti.

Di controparte, a seguito di un consiglio che suonava pressappoco come “se ti ci vedo ti rompo le corna”, due posti erano assolutamente banditi dalla vita sociale di un ragazzino che si appropinquava a diventare uomo: le sale giochi e i bar.

No, i padri non ce l’avevano né con i proprietari di sale giochi né tantomeno con i baristi, i papà ce l’avevano con una sottocategoria che stazionava in prossimità di questi luoghi e che stava alla loro integrità morale come le piaghe d’Egitto stavano alla tranquillità del faraone: I calantruni.

Dicesi “calantruni” una specie di mammimefero maschio, spesso aitante e di buona salute (anche questo il motivo dell’odio antropologico), che invece di contribuire attraverso la forza lavoro a sostegno della propria tribù, ama distaccarsi dal branco originario formandone uno nuovo insieme ad esemplari simili di altre tribù che adottano la sua stessa scelta votata al trastullamento.

Si tratta perlopiù di gruppi seminomadi che emigrano al cambiare delle stagioni da un bar a un altro (per poi tornare sempre al punto d’origine) mantenendo come unico fondamento invariabile uno stile di vita basato sull’improduttività.

«Vedi a papà se non diventi medico o avvocato - ripetono spesso i padri mentre con la macchina ti fanno fare un safari turistico attorno ai peggiori bar di Caracas - diventi pure tu calatruni come quelli!».

Non ci sono altre vie d’uscita: o medico o avvocato! Crescendo, mi sono fatto quindi delle domande. Perché papà ce l’aveva tanto con questi? Da dove viene questa strana parola? Ma soprattutto: un medico o un avvocato che a fine turno staziona al bar per una birretta è lo stesso un calantruni?

Ci ho messo trent’anni e se non ho raggiunto la verità assoluta, come il filosofo del mito della caverna di Platone, sono quantomeno (chiedendo a destra e manca) riuscito a scoprire qualcosa di interessante.

Esiste un flauto di origine siciliana, lungo, stretto e dal bel suono, di nome “calandra”, che prende il nome dal calandro (scientificamente Anthus Campestris), ovvero un uccello parente del passero, notoriamente più bravo a cantare e dalla voce più aggraziata con qualche partecipazione a Sanremo.

Il calandro è un piccolo volatile di 15-20 cm diffuso in Europa, Africa e Asia, e in Italia in tutta la penisola. A parte il bel canto (per questo l’associazione al flauto) che anticamente lo rendeva un uccello domestico, il calandro non si contraddistingue per un granché. Anzi, per dirla tutta, ama vivere in zone cespugliose e scroccare alla natura quello che trova: magari i contadini che si spaccavano la schiena per portare il pane a casa, vedendo che stile di vita facevano questi uccelli, chiamavano calantruni i propri compaesani che di lavorare non ne volevano manco a brodo.

Altra ipotesi del tutto diversa si collega invece ai calanchi. I calanchi sono (occhio perché questa me l’ha mandata Piero Angela su WhatsApp) un fenomeno geomorfologico del terreno che si produce per effetto di dilavamento delle acque piovane su rocce argillose degradate e con scarsa copertura vegetale. In pratica sono terreni che non servono a niente perché non producono niente, quindi calantruni. Insomma, la storia è questa.

E ogni tanto, ogni volta che avevo dubbi su queste cose, la buonanima del dottore del paese mi diceva sempre: «Se questi stanno al bar è perché sono dei disperati che non trovano lavoro. Se non trovano lavoro è perché ci sta una brutta malattia che si chiama politica e che porta i medici a volere fare le leggi, e gli avvocati a volere curare le persone. La colpa in fondo è anche nostra che siamo tutti medici e avvocati, caro mio…».
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