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Tre registi siciliani tra i 20 più promettenti: i nomi del "futuro del cinema italiano"

La rivista del "Cinematografo" ha stilato giusto qualche giorno fa la sua classifica dei “venti nomi per il futuro del cinema italiano”, e nella lista figurano anche tre siciliani

Tancredi Bua
Giornalista
  • 16 dicembre 2025

(Credit ai fotografi Mirko Pizzichini, Karen Di Paola e all'agenzia fotografica Ti-Press)

Degli sguardi sul mondo che il cinema italiano colleziona attraverso gli occhi dei suoi registi non si parla mai abbastanza, e ancor meno si parla dei più giovani, di chi ha all’attivo un’opera prima o un paio di cortometraggi. La rivista del "Cinematografo" ha stilato giusto qualche giorno fa la sua classifica dei “venti nomi per il futuro del cinema italiano”, e nella lista figurano anche tre siciliani (due nati e cresciuti nell’isola, un’altra che ci è nata e vi è legatissima, ma è cresciuta a cavallo fra Palermo e Roma).

Si tratta di Margherita Spampinato, al cinema giusto adesso per Fandango con il primo lungometraggio, “Gioia mia”, Leandro Picarella, anche lui prossimamente in sala con il primo film, “Sciàtunostro”, e Giuseppe William Lombardo, in sala a inizio 2026 con “Lo scuru”, lungometraggio d’esordio tratto dall’omonimo romanzo di Orazio Labbate.

Sono, i loro, tre film che raccontano con un linguaggio nuovo (non è un caso se i tre film girano alla larga da Palermo e sono ambientati fra Trapani, il “deserto calanchico”di Butera e l'isola di Linosa) una Sicilia (e quindi, non dimentichiamolo, un’Italia) diversa, che s’impone sul mercato cinematografico nazionale (ed europeo) con un’identità profondamente cambiata.

Da una parte l’occhio di Picarella che racconta una Linosa selvaggia ed emersa dalle nebbie di vecchie videocassette, dall’altra lo sguardo di Lombardo che mette in immagini l’isola, per dirla alla Bufalino, infestata «da luce e lutto», e all’altro polo ancora la visione della Spampinato, che mette in scena un racconto quasi interamente girato a Trapani (anche se il nome della città non viene mai menzionato), guidato dagli occhi estasiati di un bambino.

«Penso sia una cosa bellissima – ci dice Margherita Spampinato, classe ’79, premio speciale della Giuria a Locarno per “Gioia mia” (che ha anche fatto portare a casa alla palermitana Rory Quattrocchi il Pardo per la migliore interpretazione femminile) – ma penso che in generale tutti i riconoscimenti sono, almeno io li prendo così, uno stimolo, ti dicono che hai fatto bene, che evidentemente la strada è giusta.

Nel mio caso è uno stimolo a credere nelle cose che mi piacciono e che piacciono al mio gruppo creativo, in particolare al direttore della fotografia (Claudio Cofrancesco, due anni fa al lavoro nell’esordio alla regia di Michele Riondino, “Palazzina Laf”, ndr), perché poi il rischio è sempre che invece, perché un prodotto sia commercializzabile, si vadano a snaturare alcune cose, e allora mi dico magari che questi premi sono una molla per continuare a fare le cose con passione, a fare cose che si amano.

Questo è tra l’altro un momento storico di grande omologazione, dove si rischia quasi che le storie si assomiglino tutte, no? Allora non è sempre facile, all’inizio, sulla carta, quando hai solo una sceneggiatura, trovare qualcuno che ci crede, però riconoscimenti come questo servono, almeno nel mio caso, a darmi fiducia».

Margherita Spampinato, cresciuta a Roma, ha sempre vissuto la Sicilia come Nico (interpretato da Marco Fiore), il bambino protagonista del suo film, e cioè come un mondo magico in cui le regole della vita sul continente venivano sospese come la gravità terrestre che, superata l’esosfera, si annulla.

«Il racconto nasce proprio dai miei ricordi d’infanzia – dice la regista – perché da piccola io sono cresciuta a Roma, in una famiglia laica, molto politicizzata, però tutte le estati i miei genitori mi mandavano in vacanza a Palermo, a casa di due anziane zie signorine, cugine di mia nonna.

Loro erano proprio super-religiose, quindi mi portavano in chiesa, mi insegnavano le buone maniere, mi facevano fare il riposino, tutte cose completamente diverse dalla mia vita romana, ma soprattutto loro erano proprio convinte che esistessero gli spiriti, il diavolo, quindi per me da bambina questa dimensione magica siciliana era proprio molto, molto potente. Ho questo ricordo molto forte di un mondo magico nel quale entravo tutte le estati».

Giuseppe William Lombardo – classe ’94, nato e cresciuto a Palermo – è il secondo sguardo siciliano proiettato al futuro inserito nella lista stilata dal Cinematografo. Suoi sono i cortometraggi “La radio”, “Metafisicherie” e “La particella fantasma” (ispirato alla scomparsa del fisico Ettore Majorana), ma l’opera con cui ha attratto definitivamente l’attenzione dei critici Gianluca Arnone e Lorenzo Ciofani è il suo primo lungometraggio, “Lo scuru”, con protagonisti Fabrizio Falco, Simona Malato, Vincenzo Pirrotta, Fabrizio Ferracane, Daniela Scattolin, Filippo Luna, Giuditta Perriera e Guia Jelo.

«Essere inserito da Cinematografo nella lista dei venti giovani registi per il futuro del cinema italiano è per me un onore e anche una responsabilità, di cui sono grato a Gianluca Arnone e Lorenzo Ciofani. Il fatto che una rivista di settore così importante dia spazio alle voci dei giovani autori, che tentano di raccontare storie più vicine al “genere” è qualcosa che riempie di orgoglio e spinge a volerselo meritare dando ancora di più sul lavoro, alzando l’asticella col prossimo film».

La Sicilia raccontata ne “Lo scuru” vibra diversamente di quant’è stato mostrato sinora sullo schermo, e «non per fare il figo – dice Lombardo – ma per far vedere che è una terra che contiene così tante storie che è ingiusto relegarla soltanto al sole e alla mafia».

Il film è per il regista palermitano il primo tassello di un’ideale trilogia siciliana che vuole mostrare al pubblico «un’isola lontana da qualsiasi cosa fatta sinora, personalmente è diventata trita e ritrita la narrazione attuale della Sicilia. È una terra di contrasti, è la terra del carrubo dove però le campane suonano a morto, c’è il sole, dunque il bianco, ma anche il buio del pessimismo subito accanto alla luce. Da siciliano convivi sempre con un’atmosfera quasi funerea, come se a tratti tutto diventasse cupo, ma a un certo punto accade qualcosa di magico che torna a farti sperare».

Terzo nome siciliano nella lista stilata dalla rivista di settore è, come accennato, Leandro Picarella, classe ’84, nato ad Agrigento e formatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, già autore di “Segnali di vita” e “Divinazioni”, in concorso nella sezione “Progressive Cinema: Visioni per il mondo di domani” dell’ultima Festa del cinema di Roma con il suo “Sciàtunostro”.

Il film racconta la storia di Ettore e Giovannino, due amici inseparabili di undici e sette anni, che si preparano a vivere l’ultima estate insieme. Ettore, costretto a trasferirsi sulla terraferma per proseguire gli studi, lascia sull’isola un vuoto che Giovannino dovrà colmare.

Attraverso l’archivio e la videocamera di Pino, un anziano videoamatore, il tempo si farà memoria condivisa, e il soffio dell’isola – lo «sciàtu» che dà il titolo al film – diventa il respiro di un’intera comunità. Lì dove “Gioia mia” lavorava sull’ingresso in un mondo magico interamente ambientato in Sicilia e “Lo scuru” faceva dell’isola lo sfondo di miti contrastanti che si animano in spiagge nere e incubi diurni, “Sciàtunostro” insiste sulla Sicilia come una terra di memoria, abitata da custodi d’un tempo preziosissimo, da vedere e rivedere per ricordarsi sempre chi si è e chi si è stati.
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