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Tutto quello che non sai su Punta Bianca: guerra, zolfo e una bellezza da proteggere

Un luogo splendido da preservare, divenuto riserva protetta a giugno del 2022. Ma la riserva naturale in provincia di Agrigento è anche la sede di un poligono militare

Livio Cavaleri
Redattore editoriale
  • 29 novembre 2022

Punta Bianca (foto di Livio Cavaleri)

«Benvenuti a Punta Bianca riserva naturale». Il cartello reca i loghi di Mareamico, Marevivo, Regione Sicilia e dei Comuni di Agrigento e Palma di Montechiaro. L’area ricade nel territorio tra le due città. Per raggiungerla, a partire dalla contrada Mandrascava di Agrigento, bisogna seguire una strada sterrata. «Una settimana fa occorreva una mezz’ora per percorrerla, adesso si arriva in dieci minuti». Marco Falzone è guida turistica da venti anni, dopo aver studiato archeologia, e frequenta questa zona da quando era ragazzo.

«Parlare di Punta Bianca ai visitatori vuol dire parlare di zolfo e di Seconda guerra mondiale» spiega durante il viaggio. Il 9 luglio del 1943, a una quarantina di chilometri da questo luogo, sulla spiaggia di Mollarella a Licata, sbarcò la colonna Joss, formata dalla terza divisione di fanteria statunitense del generale Truscott e da ranger e mezzi corazzati.

«In queste terre, alla foce del fiume Naro, si scontrarono gli americani, che puntavano ad Agrigento e a Palermo, e i bersaglieri italiani» racconta Marco. Nell’area che circonda Punta Bianca, quindi, si svolse una delle prime battaglie dell’operazione Husky, una delle prime fasi dell’invasione della Sicilia da parte degli Alleati. Il fuoristrada prosegue in piena campagna.
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«L’esercito ha da poco spianato la strada e ripristinato i canali di scolo ai bordi». L’esercito di cui parla la guida sono uomini e donne della Brigata Aosta, Quarto Genio Guastatori, intervenuti con i propri mezzi, meno di un mese fa, per migliorare la percorribilità del sentiero. Ma perché l’esercito italiano si è interessato a Punta Bianca? Punta Bianca è un’area protetta o, almeno, dovrebbe esserlo. Lo scorso 26 giugno, la Regione Sicilia, attraverso il Decreto assessoriale n. 157, ha istituito la «Riserva naturale orientata di Punta Bianca, Monte Grande e Scoglio Patella».

Il documento porta la firma dell’ex assessore del Territorio e dell’ambiente, Salvatore Cordaro. Eppure il paesaggio è spoglio, cupo, sotto il cielo di novembre, e deserto a eccezione di qualche abitazione che sorge in testa allo strapiombo. È difficile, a un primo sguardo, immaginarne l’importanza.

Furono le associazioni Mareamico, Marevivo e Legambiente, nella seconda metà degli anni novanta, a presentare alla giunta regionale la richiesta di una riserva. Sono trascorsi più di venti anni dalla sua istituzione. Qualche anno dopo, nel dicembre 1999, la Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali e panoramiche, presieduta dalla dottoressa Graziella Fiorentini, si riunì ad Agrigento e pose l’intera area sotto il vincolo d’immodificabilità (legge n. 1947/39).

Il verbale di quell’incontro appare nel numero 37 della Gazzetta ufficiale della Regione Sicilia, datato 20 luglio 2001; tale documento, insieme agli altri testi in esso citati, è lo strumento principe per comprendere perché Punta Bianca debba essere protetta. Protetta da chi? L’auto si arresta ai piedi di una collinetta.

Il terreno, qualche pioggia recente, è tutto solcato da crepe. Il verbale appena citato riferisce, a proposito della composizione del suolo di Punta Bianca, di «singolari orizzonti argillosi a struttura brecciata inglobanti esotici calcarei di età diversa e altri elementi litoidi (pietrosi, ndr) di natura basaltica d’incerta provenienza». Non è solo terra, insomma.

Chi avrebbe mai pensato che il suolo calpestato, i suoi strati, che la geologia chiama «orizzonti», avessero una natura tanto complessa e sfaccettata? In cima alla collinetta resiste un bunker per mitragliatrici, reperto del secondo conflitto, pressocché intatto. Chissà se un soldato, negli anni quaranta, abbandonando i bossoli per terra, s’interrogasse sulla complessità della terra che calpestava.

E chissà se un soldato, oggi, si porrebbe la stessa domanda. Marco, dalla collinetta, punta il dito in direzione opposta al mare, indica Monte Grande, alto 267 metri: «Laggiù c’è una delle sei miniere settecentesche di zolfo registrate in Sicilia». La storia insediativa in questa area, sembra, cominciò con lo zolfo, cioè attorno a esso. Presso la località Baffo Calcarone, come in molte altre zone, il minerale veniva estratto e fuso nelle fornaci fin dall’età del bronzo (2300- 700 a.C.).

«L’incredibile giacimento di zolfo» di Punta Grande, secondo un saggio archeologico di Giuseppe Castellana, citato nel verbale della commissione provinciale, innescò un fenomeno abitativo e lavorativo che continuò senza interruzione fino al XIX secolo. Attorno alle zolfare, infatti, sorsero nuclei di case e persino un santuario ancora più antico, risalente all’età del rame. Nel corso del II millennio a.C., questa comunità ha prodotto una serie di ceramiche ascrivibili alla cultura di Castelluccio, peculiare per un particolare tipo di manufatti «a linee brune su fondo chiaro, con motivi a bande incrociate», testimonianza di contatti tra gli artigiani e la Grecia antica.

In località Marcatazzo, inoltre, secondo Giuseppe Castellana, sono stati rinvenuti i resti di «un grande emporio egeo databile nel XVI secolo a.C.». Sempre dalla collina, Marco indica una costruzione medievale in lontananza, in contrada Capreria, che a questa distanza sembra poco più di una torre. È il castello di Federico III Chiaramonte, conte di Modica, costruito nel 1358. La guida spiega che per raggiungerlo occorre un percorso ad hoc. Una descrizione della struttura, nondimeno, appare nel verbale: «Gli alloggi, dislocati a ponente e a mezzogiorno, sono oramai inesistenti: restano in piedi solo le cortine murarie realizzate in conci di pietra e malta».

Nei pressi del bunker, il suolo, spoglio, sembra tutto tranne che una porzione di macchia mediterranea. Tuttavia, la riserva, nella sua intera estensione, pari a 437,11 ettari (meno di 4,5 chilometri quadrati), ospita una grande quantità di specie endemiche, cioè esclusive della zona.

Il verbale del 1991 enumera la vegetazione di Punta Bianca: è una sequela di nomi scientifici, una decina, che, con l’aiuto del Portale della flora d’Italia, è possibile intendere o quantomeno immaginare. Tra queste specie o varianti uniche, così, appaiono la palma nana (Chamaerops humilis), la malva agrigentina (Lavatera agrigentina), la lupinella con denti appiattiti (Onobrychis aequidentata), il limonio o berrussu (Limonium narbonense), l’issopo (Satureja nervosa), la micromeria cespugliosa (Satureja fruticulosa), la carlina di Sicilia (Carlina sicula), il giaggiolo (Iris juncea) e altri.

Anche con il nome comune, la maggior parte di queste piante resta sconosciuta e trascriverla sembra un mero esercizio di elencazione. Forse è proprio l’anonimato di queste specie, cioè l’ignoranza dell’uomo, a suggerire la necessità di una tutela. La varietà di animali, poi, risulta «di notevole interesse sia per la loro rarità che per il ruolo svolto nell’ecosistema».

Punta Bianca ospita esemplari di coniglio selvatico, istrice, volpe, chirottero, luscengola, colubro di Esculapio e molti altri; la lista degli uccelli stazionari contiene, tra i tanti, il falco grillaio, la coturnice, la ghiandaia marina, il fratino, il barbagianni, la cappellaccia, la cinciallegra, la ghiandaia, il corvo imperiale e qualche nome buffo, come l’occhiocotto.

Durante i flussi migratori, sono una cinquantina gli esemplari che, in aggiunta a quelli già descritti, transitano attraverso l’area. Nel complesso, gli animali citati ammontano a un’ottantina. Il racconto di Punta Bianca, e del suo valore, è appena iniziato.
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